mercoledì 12 febbraio 2014
Scuola 2.0: cautela digitale
Scuola 2.0: cautela digitale: Non sono tante in questi tempi di enstusiasmi digitali le voci che richiamano ad una cautela rispetto all'introduzione delle più diffuse...
martedì 11 febbraio 2014
lunedì 10 febbraio 2014
Scuola 2.0: discipline produttive
Scuola 2.0: discipline produttive: Le discipline produttive secondo Joseph J. Schwab, ne "La struttura della conoscenza e il curricolo", 1964, pp. 13-14 "(.....
domenica 9 febbraio 2014
scienze sperimentali: il piano ISS
Che cosa significa l'espressione "scienze sperimentali"? Che cosa distingue, ammesso che la distinzione sussista, tra scienze della natura e scienze sperimentali? E poi: "scienze della natura" e "scienze naturali" sono la stessa cosa o le due espressioni hanno un significato diverso? Per rispondere a queste domande - impresa tutt'altro che banale ma anche appassionante - cominciamo con proporre la lettura di una delle relazioni del primo seminario nazionale del Piano ISS - Insegnare Scienze Sperimentali.
La didattica laboratoriale del Piano ISS. Insegnare a comprendere integrando ragionamento, esplorazione della fenomenologia e misure (Emilio Balzano, Rosarina Carpignano, Tiziano Pera, Filomena Rocca) in PIANO ISS - Primo Seminario Nazionale (Milano - Napoli) Novembre Dicembre 2006
A) Il laboratorio e la didattica
La didattica laboratoriale e la realizzazione di laboratori innovativi costituiscono elementi caratterizzanti il Piano ISS così come descritto nel documento di base e nei relativi allegati. Alla base c’è la constatazione che:
a) la quasi totale assenza di una reale pratica di laboratorio (che coinvolga in modo attivo gli allievi) nelle nostre scuole sia strettamente correlata al grave stato dell’insegnamento-apprendimento delle scienze nel nostro paese;
b) la mancanza di una pratica di laboratorio non è tanto da ricondurre alla scarsità di risorse - il laboratorio può essere realizzato con costi contenuti, costose aule multimediali sono ora in quasi tutte le scuole - quanto a carenze complessive del sistema scolastico (organizzazione degli spazi e dei tempi della scuola, non adeguata preparazione degli insegnanti, ecc.).
Sulla valenza formativa del laboratorio nella didattica delle scienze c’è in generale accordo anche se esistono punti di vista anche molto diversi sulle funzioni e le modalità di attuazione. Per semplicità si può dire che coesistono due posizioni a volte complementari altre volte antitetiche per quanto concerne l’attuazione:
1) Le scienze sono per loro natura sperimentali: solo con attività di misura è possibile impadronirsi del significato delle leggi. Il laboratorio diventa il luogo privilegiato della verifica delle leggi e dell’addestramento al metodo sperimentale (talvolta ridotto a schemi rigidi e a procedure standard);
2) La costruzione di una conoscenza scientifica si basa sulla condivisione di esperienze e di significati. L’esplorazione della fenomenologia, se ben progettata, integra momenti di analisi qualitativa, analisi quantitativa e la costruzione/condivisione di modelli. Il laboratorio è il terreno privilegiato per costruire abilità sperimentali e capacità di ragionamento che permettono di sviluppare un pensiero critico, di distinguere tra evidenze e interpretazioni e condividere la plausibilità e il significato di concetti, modelli e teorie (approccio fenomenologico).
Le due impostazioni (qui polarizzate per semplicità su due posizioni contrapposte) sottolineano, con enfasi diversi aspetti che sono comunque importanti nello studio delle scienze (il saper esplorare con metodo la fenomenologia, il misurare, il prevedere, il progettare...). Tuttavia dovendo rispondere all’esigenza di promuovere e attivare processi che migliorano nel loro insieme l’educazione scientifica (anche correggendo situazioni che rendono poco produttivi i laboratori esistenti), il Piano ISS ha scelto di privilegiare l’approccio fenomenologico e un laboratorio (non soltanto come un luogo fisico) che permetta di sperimentare i modelli e condivisione di teorie (cfr. documento di base e allegato). Tale scelta è tra l’altro coerente con la necessità di promuovere, nelle reti verticali ancorate ai presìdi territoriali, un’educazione scientifica dalla scuola d’infanzia fino alla secondaria di II grado costruendo e condividendo elementi del curricolo di scienze. Ciò nasce dalla convinzione che non solo per sviluppare un atteggiamento scientifico (che richiede capacità operative, di ragionamento, ecc.) occorre iniziare presto proprio perché queste capacità si sviluppano con gradualità e con tempi anche lunghi ma soprattutto che le attività esplorative a carattere scientifico, se ben progettate e non finalizzate al dogmatismo ed al nominalismo, aiutano più in generale i bambini e i ragazzi nella loro crescita culturale. Ad esempio sono indispensabili per il maturare delle capacità linguistiche e logico-matematiche, per educare all’uso delle tecnologie, per sviluppare la sensibilità nel riconoscere il senso estetico dei fenomeni naturali, ecc. Per questo è necessario riconoscere le diverse valenze della didattica laboratoriale sia nell’apprendimento che nell’insegnamento.
La scelta di privilegiare nel Piano ISS la realizzazione di laboratori innovativi è coerente con i risultati di ricerche svolte in diversi paesi europei che evidenziano i limiti del laboratorio tradizionale. Emerge che, in generale, ancorché tecnologicamente avanzato (multimediale, con sensori in linea, ecc.), il laboratorio tradizionale (di addestramento e di misura) presenta i seguenti limiti:
1) Gli studenti trovano difficoltà nel legare le operazioni che riguardano gli apparati di misura e la configurazione dell’esperimento con i modelli concettuali che danno significato a tali operazioni, quindi lavorano spesso con procedure che si presentano come un insieme di azioni anche complesse ma tra loro sconnesse.
2) La rilevazione e l’analisi dei dati sono spesso legate ad una visione prestatistica e le elaborazioni richieste sono di frequente guidate da automatismi (nell’applicare formule o nell’utilizzare software...) senza che si comprendano i concetti di base sul senso dell’elaborazione. Non si tratta tanto dei concetti più avanzati: anche il significato della media aritmetica non è sempre chiaro.
D’altro canto da diverse ricerche e sperimentazioni emerge che tali difficoltà tendono a diminuire in quelle situazioni in cui l’attività di laboratorio:
a) Integra nell’analisi quantitativa diversi momenti basati su un approccio fenomenologico nella ricerca delle regole, l’analisi qualitativa, la descrizione a parole, la modellizzazione e la costruzione della teoria;
b) Tende a privilegiare il protagonismo degli studenti nello svolgimento di compiti che richiedono, in attività parzialmente assistite, la progettazione dell’esperimento, il controllo della sua configurazione.
Quindi il laboratorio del Piano ISS è non solo e non tanto un “luogo attrezzato”, bensì metodo e cultura della ricerca e della progettualità. Il laboratorio rappresenta uno “spazio-situazione” ove gli studenti vengono coinvolti in operazioni mentali-manuali. Tuttavia non si tratta solo di proporre, progettare, realizzare ed interpretare esperienze e/o esperimenti e/o esercitazioni in ambito disciplinare o di area-progetto, quanto di evidenziare il legame esistente tra interpretazione di fenomeni e lo sviluppo di capacità di ragionamento. Laboratorio dunque non solo come luogo e circostanza centrate sulla relazione tra mente e corpo, pur importantissima, ma come importante e insostituibile struttura connettiva della ricerca di senso e della “cultura dell’apprendimento”. L’attività spazia dall’individuazione di un problema al progetto preliminare per la sua soluzione, all’indagine di fattibilità, all’ esecuzione di esperienze, alla loro validazione, alla valutazione di coerenza dei risultati, alla loro pubblicizzazione. L’obiettivo è quello di far acquisire atteggiamenti e valori come parti di un metodo, di una mentalità, che possano divenire patrimonio culturale dell’allievo. E questo laboratorio può fornire allo studente un insostituibile contributo per la formazione di una mentalità fondata sulla partecipazione e la cooperazione; nello stesso tempo impone la partecipazione attiva degli studenti al processo di costruzione del loro stesso sapere (quello che G. Bateson chiama “deuteroapprendimento” e che altri indicano come “apprendimento secondario”, cioè l’imparare ad imparare).
Il laboratorio proposto nel piano ISS si basa pertanto sula attivazione del processo di apprendimento che porti alla trasformazione dell’atteggiamento e del comportamento dell’allievo di fronte al duplice obiettivo: imparare a ricercare ed imparare ad imparare. La prospettiva educativa del laboratorio non è dunque semplicemente funzionale alle discipline quanto piuttosto ad una epistemologia trasversale alle discipline, pienamente cosciente di misurarsi con l’educazione al “rapporto” degli allievi tra loro, degli allievi con il docente e di questi con i fenomeni della natura.
informazioni complete sul Piano ISS in una pagina curata dall'associazione AIF
La didattica laboratoriale del Piano ISS. Insegnare a comprendere integrando ragionamento, esplorazione della fenomenologia e misure (Emilio Balzano, Rosarina Carpignano, Tiziano Pera, Filomena Rocca) in PIANO ISS - Primo Seminario Nazionale (Milano - Napoli) Novembre Dicembre 2006
A) Il laboratorio e la didattica
La didattica laboratoriale e la realizzazione di laboratori innovativi costituiscono elementi caratterizzanti il Piano ISS così come descritto nel documento di base e nei relativi allegati. Alla base c’è la constatazione che:
a) la quasi totale assenza di una reale pratica di laboratorio (che coinvolga in modo attivo gli allievi) nelle nostre scuole sia strettamente correlata al grave stato dell’insegnamento-apprendimento delle scienze nel nostro paese;
b) la mancanza di una pratica di laboratorio non è tanto da ricondurre alla scarsità di risorse - il laboratorio può essere realizzato con costi contenuti, costose aule multimediali sono ora in quasi tutte le scuole - quanto a carenze complessive del sistema scolastico (organizzazione degli spazi e dei tempi della scuola, non adeguata preparazione degli insegnanti, ecc.).
Sulla valenza formativa del laboratorio nella didattica delle scienze c’è in generale accordo anche se esistono punti di vista anche molto diversi sulle funzioni e le modalità di attuazione. Per semplicità si può dire che coesistono due posizioni a volte complementari altre volte antitetiche per quanto concerne l’attuazione:
1) Le scienze sono per loro natura sperimentali: solo con attività di misura è possibile impadronirsi del significato delle leggi. Il laboratorio diventa il luogo privilegiato della verifica delle leggi e dell’addestramento al metodo sperimentale (talvolta ridotto a schemi rigidi e a procedure standard);
2) La costruzione di una conoscenza scientifica si basa sulla condivisione di esperienze e di significati. L’esplorazione della fenomenologia, se ben progettata, integra momenti di analisi qualitativa, analisi quantitativa e la costruzione/condivisione di modelli. Il laboratorio è il terreno privilegiato per costruire abilità sperimentali e capacità di ragionamento che permettono di sviluppare un pensiero critico, di distinguere tra evidenze e interpretazioni e condividere la plausibilità e il significato di concetti, modelli e teorie (approccio fenomenologico).
Le due impostazioni (qui polarizzate per semplicità su due posizioni contrapposte) sottolineano, con enfasi diversi aspetti che sono comunque importanti nello studio delle scienze (il saper esplorare con metodo la fenomenologia, il misurare, il prevedere, il progettare...). Tuttavia dovendo rispondere all’esigenza di promuovere e attivare processi che migliorano nel loro insieme l’educazione scientifica (anche correggendo situazioni che rendono poco produttivi i laboratori esistenti), il Piano ISS ha scelto di privilegiare l’approccio fenomenologico e un laboratorio (non soltanto come un luogo fisico) che permetta di sperimentare i modelli e condivisione di teorie (cfr. documento di base e allegato). Tale scelta è tra l’altro coerente con la necessità di promuovere, nelle reti verticali ancorate ai presìdi territoriali, un’educazione scientifica dalla scuola d’infanzia fino alla secondaria di II grado costruendo e condividendo elementi del curricolo di scienze. Ciò nasce dalla convinzione che non solo per sviluppare un atteggiamento scientifico (che richiede capacità operative, di ragionamento, ecc.) occorre iniziare presto proprio perché queste capacità si sviluppano con gradualità e con tempi anche lunghi ma soprattutto che le attività esplorative a carattere scientifico, se ben progettate e non finalizzate al dogmatismo ed al nominalismo, aiutano più in generale i bambini e i ragazzi nella loro crescita culturale. Ad esempio sono indispensabili per il maturare delle capacità linguistiche e logico-matematiche, per educare all’uso delle tecnologie, per sviluppare la sensibilità nel riconoscere il senso estetico dei fenomeni naturali, ecc. Per questo è necessario riconoscere le diverse valenze della didattica laboratoriale sia nell’apprendimento che nell’insegnamento.
La scelta di privilegiare nel Piano ISS la realizzazione di laboratori innovativi è coerente con i risultati di ricerche svolte in diversi paesi europei che evidenziano i limiti del laboratorio tradizionale. Emerge che, in generale, ancorché tecnologicamente avanzato (multimediale, con sensori in linea, ecc.), il laboratorio tradizionale (di addestramento e di misura) presenta i seguenti limiti:
1) Gli studenti trovano difficoltà nel legare le operazioni che riguardano gli apparati di misura e la configurazione dell’esperimento con i modelli concettuali che danno significato a tali operazioni, quindi lavorano spesso con procedure che si presentano come un insieme di azioni anche complesse ma tra loro sconnesse.
2) La rilevazione e l’analisi dei dati sono spesso legate ad una visione prestatistica e le elaborazioni richieste sono di frequente guidate da automatismi (nell’applicare formule o nell’utilizzare software...) senza che si comprendano i concetti di base sul senso dell’elaborazione. Non si tratta tanto dei concetti più avanzati: anche il significato della media aritmetica non è sempre chiaro.
D’altro canto da diverse ricerche e sperimentazioni emerge che tali difficoltà tendono a diminuire in quelle situazioni in cui l’attività di laboratorio:
a) Integra nell’analisi quantitativa diversi momenti basati su un approccio fenomenologico nella ricerca delle regole, l’analisi qualitativa, la descrizione a parole, la modellizzazione e la costruzione della teoria;
b) Tende a privilegiare il protagonismo degli studenti nello svolgimento di compiti che richiedono, in attività parzialmente assistite, la progettazione dell’esperimento, il controllo della sua configurazione.
Quindi il laboratorio del Piano ISS è non solo e non tanto un “luogo attrezzato”, bensì metodo e cultura della ricerca e della progettualità. Il laboratorio rappresenta uno “spazio-situazione” ove gli studenti vengono coinvolti in operazioni mentali-manuali. Tuttavia non si tratta solo di proporre, progettare, realizzare ed interpretare esperienze e/o esperimenti e/o esercitazioni in ambito disciplinare o di area-progetto, quanto di evidenziare il legame esistente tra interpretazione di fenomeni e lo sviluppo di capacità di ragionamento. Laboratorio dunque non solo come luogo e circostanza centrate sulla relazione tra mente e corpo, pur importantissima, ma come importante e insostituibile struttura connettiva della ricerca di senso e della “cultura dell’apprendimento”. L’attività spazia dall’individuazione di un problema al progetto preliminare per la sua soluzione, all’indagine di fattibilità, all’ esecuzione di esperienze, alla loro validazione, alla valutazione di coerenza dei risultati, alla loro pubblicizzazione. L’obiettivo è quello di far acquisire atteggiamenti e valori come parti di un metodo, di una mentalità, che possano divenire patrimonio culturale dell’allievo. E questo laboratorio può fornire allo studente un insostituibile contributo per la formazione di una mentalità fondata sulla partecipazione e la cooperazione; nello stesso tempo impone la partecipazione attiva degli studenti al processo di costruzione del loro stesso sapere (quello che G. Bateson chiama “deuteroapprendimento” e che altri indicano come “apprendimento secondario”, cioè l’imparare ad imparare).
Il laboratorio proposto nel piano ISS si basa pertanto sula attivazione del processo di apprendimento che porti alla trasformazione dell’atteggiamento e del comportamento dell’allievo di fronte al duplice obiettivo: imparare a ricercare ed imparare ad imparare. La prospettiva educativa del laboratorio non è dunque semplicemente funzionale alle discipline quanto piuttosto ad una epistemologia trasversale alle discipline, pienamente cosciente di misurarsi con l’educazione al “rapporto” degli allievi tra loro, degli allievi con il docente e di questi con i fenomeni della natura.
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Tiziano Pera
giovedì 6 febbraio 2014
una didattica umanistica delle scienze naturali
proponiamo un brano da un interessante articolo di Giovanni Cercignani (http://www.pi.ibf.cnr.it/cercignani-giovanni) sulla didattica delle Scienze Naturali
(...) Siamo giunti al punto di poter convogliare gli argomenti fin qui presentati in un discorso prospettico che investa l’insieme dei problemi posti dalla moderna didattica delle Scienze Naturali. L’idea che siamo andati elaborando fin qui è riassumibile nelle seguenti proposizioni:
1) insegnare Scienze Naturali significa in sostanza accostare lo studente a modelli di conoscenza che non siano fini a se stessi, ma che abbiano un potenziale euristico più generale, siano cioè paradigmi di ulteriore espansione della conoscenza e dell'apprendimento;
2) in questa prospettiva, il contenuto specifico di ogni disciplina non va appreso mnemonicamente (salvo che nelle sue definizioni elementari) bensì usato come esperienza conoscitiva;
3) obiettivo principale della didattica delle Scienze Naturali nelle Scuole Secondarie Superiori è la formazione di una cultura generale intesa nel senso definito sopra (e questo vale, come si è già detto, per tutte le materie), e non l’addestramento specialistico di professionisti;
4) tale obiettivo si può realizzare proponendo lo studio critico e riflessivo di specifici modelli di cultura scientifica scelti dal repertorio a disposizione dell'insegnante.
Ci si domanderà se questo genere di proposta sia ragionevole, se sia cioè proponibile all'insegnante di Scienze Naturali la rinuncia al classico programma di coprire nel suo insegnamento tutto il campo di determinate discipline, per scegliere invece un itinerario conoscitivo che parta da una sola di queste, presa come paradigma di un linguaggio scientifico comune, da usare per la ricognizione di diversi altri settori che andranno letti in chiave interdisciplinare.
Sembra ragionevole proporre il superamento di una impostazione nozionistica o specialistica attraverso l’uso di uno strumento di tal genere? Posta in questi termini, l’operazione di accostamento alla formazione di una cultura scientifica generale non rischia di rivelarsi un utopia?
La risposta a queste obiezioni può venire solo da una corretta valutazione della necessità didattica, che possiamo solo definire come l’introduzione di solide basi concettuali, metodologiche e di linguaggio per progredire verso un apprendimento formativo.
Diviene allora spontanea l’individuazione di strategie di insegnamento che privilegino la scelta di argomenti adeguati particolarmente alla realizzazione della proposta ora avanzata. Si possono agevolmente risolvere le obiezioni riguardanti il "pignolo descrittivismo" o il "riduzionismo miope", come pure quelle sulla settorialità delle discipline o il mancato rapporto con la "realtà di tutti i giorni". Docente e discente non sono più costretti a subire il programma, ma liberi di costruirlo secondo un propria necessità di maturazione culturale, in una parola (una grossa parola, spesso dimenticata) impegnati a fare scuola di umanesimo. Secondo questa impostazione, l’insegnamento delle Scienze Naturali si propone di avanzare su una prospettiva unitaria che adotti una visione globale della cultura scientifica attraverso la consapevole analisi dei suoi aspetti specifici.
l'articolo completo su http://educa.univpm.it/prodiba/scinasec.html
(...) Siamo giunti al punto di poter convogliare gli argomenti fin qui presentati in un discorso prospettico che investa l’insieme dei problemi posti dalla moderna didattica delle Scienze Naturali. L’idea che siamo andati elaborando fin qui è riassumibile nelle seguenti proposizioni:
1) insegnare Scienze Naturali significa in sostanza accostare lo studente a modelli di conoscenza che non siano fini a se stessi, ma che abbiano un potenziale euristico più generale, siano cioè paradigmi di ulteriore espansione della conoscenza e dell'apprendimento;
2) in questa prospettiva, il contenuto specifico di ogni disciplina non va appreso mnemonicamente (salvo che nelle sue definizioni elementari) bensì usato come esperienza conoscitiva;
3) obiettivo principale della didattica delle Scienze Naturali nelle Scuole Secondarie Superiori è la formazione di una cultura generale intesa nel senso definito sopra (e questo vale, come si è già detto, per tutte le materie), e non l’addestramento specialistico di professionisti;
4) tale obiettivo si può realizzare proponendo lo studio critico e riflessivo di specifici modelli di cultura scientifica scelti dal repertorio a disposizione dell'insegnante.
Ci si domanderà se questo genere di proposta sia ragionevole, se sia cioè proponibile all'insegnante di Scienze Naturali la rinuncia al classico programma di coprire nel suo insegnamento tutto il campo di determinate discipline, per scegliere invece un itinerario conoscitivo che parta da una sola di queste, presa come paradigma di un linguaggio scientifico comune, da usare per la ricognizione di diversi altri settori che andranno letti in chiave interdisciplinare.
Sembra ragionevole proporre il superamento di una impostazione nozionistica o specialistica attraverso l’uso di uno strumento di tal genere? Posta in questi termini, l’operazione di accostamento alla formazione di una cultura scientifica generale non rischia di rivelarsi un utopia?
La risposta a queste obiezioni può venire solo da una corretta valutazione della necessità didattica, che possiamo solo definire come l’introduzione di solide basi concettuali, metodologiche e di linguaggio per progredire verso un apprendimento formativo.
Diviene allora spontanea l’individuazione di strategie di insegnamento che privilegino la scelta di argomenti adeguati particolarmente alla realizzazione della proposta ora avanzata. Si possono agevolmente risolvere le obiezioni riguardanti il "pignolo descrittivismo" o il "riduzionismo miope", come pure quelle sulla settorialità delle discipline o il mancato rapporto con la "realtà di tutti i giorni". Docente e discente non sono più costretti a subire il programma, ma liberi di costruirlo secondo un propria necessità di maturazione culturale, in una parola (una grossa parola, spesso dimenticata) impegnati a fare scuola di umanesimo. Secondo questa impostazione, l’insegnamento delle Scienze Naturali si propone di avanzare su una prospettiva unitaria che adotti una visione globale della cultura scientifica attraverso la consapevole analisi dei suoi aspetti specifici.
l'articolo completo su http://educa.univpm.it/prodiba/scinasec.html
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martedì 4 febbraio 2014
Scuola 2.0: Una pedagogia per la Scienza e la Tecnologia
Scuola 2.0: Una pedagogia per la Scienza e la Tecnologia: (...) La via, per la pedagogia, è quella della formazione. Occorre cioè che essa assuma un impegno formativo almeno in due direzioni. La pri...
domenica 2 febbraio 2014
irriducibile tecnologia
Poco dopo il meeting di Rimini dell'estate del 1987, Mario Gargantini intervista John Staudenmaier per il settimanale Il Sabato.
---
“La tecnologia è l’applicazione della scienza”. Niente di più ovvio. Tutti i discorsi che sentiamo e leggiamo circa la tecnologia, da destra a sinistra, si basano su questo indiscusso presupposto.
Ebbene, qualcuno inizia a dire no. E’ John Staudenmaier, quarantanovenne, gesuita, docente all’università di Detroit; non lo dice per il gusto del paradosso e neppure è una voce isolata. Esprime il lavoro di un gruppo di storici americani che da anni stanno ritessendo la trama di quella grande espressione dell’umana creatività che chiamano “tecnologia”. Staudenmaier preferisce definirli cantastorie, per sottolineare che anche la tecnologia ha una storia, la cui ricostruzione e il cui racconto autentico, spogliato del consueto abito di rappresentanza, hanno molto da insegnare. Staudenmaier è stato una delle scoperte del meeting. A mesi, inoltre, uscirà un suo libro per la Jaca Book, dal titolo “I cantasatorie della tecnologia”.
- Il Sabato: Come spiega il suo paradosso?
- John Staudenmaier: Dicendo che la tecnologia è scienza applicata compiamo un abuso di linguaggio. Un’affermazione simile è inevitabilmente carica di un insieme di ipotesi e premesse gratuite. Si idealizza la scienza come fosse un’entità monolitica, statica, ignorando le differenze al suo interno e le diverse tradizioni che storicamente si sono sviluppate. Quasi che la scienza fosse l’unica forma piena di conoscenza e che, d’altro canto, la tecnologia sia esclusa da ogni sfera conoscitiva. Io ritengo invece che la tecnologia abbia un notevole contenuto conoscitivo. Non è semplice “applicazione”: è una forma di conoscenza, non riducibile alla scienza.
Una forma tutta particolare, unica nel suo genere, che fa ricorso, beninteso, anche ai concetti scientifici ma riorganizzandoli e facendone un uso suo proprio. La tecnologia è finalizzata a risolvere i problemi a partire dalla pura evidenza dei dati concreti, compresi quelli non ancora inquadrati in teorie o schemi concettuali. Nel costruire il suo sapere anche il tecnologo arriva ad elaborare teorie ma con modalità ben diverse dalle cosidette scienze pure.
- Il Sabato: Prova ad evidenziare questa diversità?
- Staudenmaier: Le farò un’esempio. Pensi al confronto tra un metallurgico che studia le proprietà dell’acciaio e ad un ingegnere civile che esegue l’analisi degli sforzi di una trave: entrambi devono arrivare ad una teoria circa il comportamento dei materiali ed entrambi hanno di fronte un problema complesso. Ma la complessità del secondo è ben diversa dal primo: il suo scopo è garantire che la trave faccia stare in piedi l’edificio e i problemi e le condizioni che deve tenere in considerazione sono irriducibili al puro aspetto scientifico. Chi parla di scienza applicata ignora tale irriducibilità e tende a cancelllare la complessità dell’esperienza che costituisce il proprium della tecnologia.
Poi esiste un’altra peculiarità: noi la chiamiano skill, cioè abilità acquisita, perizia, “mestiere”. E’ qualcosa che non si trova sui libri.
E’ evidente che tra un ingegnere laureato con la lode ma privo di skill e un altro meno brillante come teorico ma abile nel prendere decisioni e nel risolvere problemi, qualunque azienda privilegia il secondo. Mi preme evidenziare comunque che questa abilità non è una dote di serie B: anche il “mestiere” è una forma di conoscenza.
- Il Sabato: L’equazione tecnologia uguale scienza applicata è però molto diffusa e radicata. Come lo spiega?
- Staudenmaier: La colpa è il mito del progresso. Noi abbiamo iniziato ad insospettirci rileggendo le pubblicazioni che presentano le principali conquiste tecnologiche.
I risultati sono sempre presentrati come se il loro successo dovesse essere già deciso e assicurato in partenza: l’abbiamo chiamata “storia cortigiana”. Mi sembra che la defnizione sia chiara. Purtroppo, per ora, è la concezione più diffusa e riecheggia continuamente nel linguaggio utilizzato dai mass media, credo anche in Italia.
- Il Sabato: Perchè è così importasnte contrastare queste posizioni?
- Staudenamier: Parlare di “progresso autonomo” significa negare la sua dipendenza da qualsiasi altro fattore. E’ come se non si riconoscesse alcuna possibiltà di incidenza da parte della cultura o di determinate culture. La tecnologia in pratica diventa un corpus dotato di sue proprie leggi di crescita, incontrollato e incontrollabile, destinato a vincere contro qualunque esperienza culturale. Invece mi sembra abbastanza documentabile (...) tecnica, rivela sempre un determinato modo di vivere e di concepire la vita: le sue caratteristiche sono quelle che qualcuno, in un modo o nell’altro, ha voluto e non quelle che “inevitabilmente” doveva avere.
- Il Sabato: Se però osserviamo i prodotti sul mercato, non sembra di rilevare grandi differenze tra i prodotti provenienti da diversi contesti culturali…
- Staudenmaier: Il motivo è semplice: oggi siamo ancora in presenza di un unico modo prevalente di fare tecnologia, quello occidentale, dove per Occidente si devono intendere quei Paesi che hanno nel mito del progresso autonomo la loro ideologia portante. Si giustifica allora la diffusione di un nuovo prodotto non perchè se ne constati la rispondenza a dei bisogni ma perchè è il risultato di un inevitabile progresso. Una simile presunzione elimina ogni critica e ogni dibattito sulla distribuzione e l’impiego delle risorse di una nazione o di una collettività. E, in più, diventa causa di violenza e oppressione per quei popoli e quelle realtà culturali che non si riconoscono nella mentalità “occidentale”. E’ una cosa che ho constatato personalmente, in modo drammatico, durante 10 anni di insegnamento in South Dakota, in una riserva Sioux: la frattura tra i valori veicolati dalla tecnologia occidentale e i valori della tradizione indiana era continuamente visibile e facilmente interpretabile come causa di tanta sofferenza e tanta rabbia.
- Il Sabato: L’esempio di una minoranza etnica resta un pò limitato. Cosa dire invece del rapporto tecnologia-bisogni umani nel nostro contesto?
- Staudenmaier: Nella stragrande maggioranza dei casi bisogna parlare almeno di ambivalenza: nel senso che l’uomo, la sua dignità , la persona, si ritrova al tempo stesso vincitore e perdente. Prendiamo un esempio facile: l’automobile. L’uomo è vincente per tutte le opportunità che un simile mezzo offre ma registra una serie di sconfitte anche pensando semplicemente ai condizionamenti fisici che la vita motorizzata impone. Purtoppo il mito del progresso impedisce che a tale ambivalenza si dedichi la giusta attenzione.
- Il Sabato: La sua critica a chi parla di tecnologia, agli storici, ai mass media, è molto chiara. Ma il singolo ingegenre, il progettista, il tecnico, ha qualche responsabilità diretta in proposito?
- Staudenmaier: Indubbiamente, e in modo rilevante. Intervenendo in molte discussioni con tecnici e ricercatori, ho constatato che agisce un meccansimo simile a quello prima descritto. Ogni volta che si apre un vivace dibattito sulla destinazione delle risorse e qualcuno si alza a criticare una tecnologia di successo per i suoi risvolti umani negativi, quasi sempre succede che gli operatori di quella tecnologia invocano il progresso. L’espressione tipo è: “Bisognava farlo comunque…”. E così il dbattito viene troncato subito. Con la conseguenza di rendere più difficile la comunicazione e il dialogo stesso tra persone. Per questo non esito a dire che il mito del progresso tende a rendere disumani i rapporti nell’ambito tecnologico.
- Il Sabato: Pensando ad un possibile superamento della situazione, balzano evidenti due fatti: da un lato la tecnologia occidentale è molto potente. Dall’altro, le cosidette tecnologie alternative, che avevano alimentato grandi speranze, o non si sono imposte o sono addirittura state inglobate dal sistema. Come uscirne?
- Staudenmaier: E’ una questione molto difficile. Intravedo due possibilità. La prima è che la società occidentale, così com’è, non sopravviva a lungo: la sua sopravvivenza indefinita e trionfante non è affatto assicurata. La seconda deriva dalla constatazione dell’aggravarsi degli squilibri connessi con questo tipo di cultura: ciò potrebbe favorire il sorgere di fenomeni di correzione, di nuovi modi di operare che tendano ad un riequilibrio globale. Ci sono, in verità, parecchi segni positivi in tale direzione.
- Il Sabato: Ma quale può essere il soggetto capace di immettere elementi di novità in un sistema così forte? Non è sufficiente la sola presa di coscienza degli squilibri…
- Staudenmaier: Gli uomini sono creativi, capaci di stupore e di inziativa. Ma non basta: il problema è che siano convinti di esserlo, che ritrovino questa autocoscienza. Davanti alla difficoltà di questa impresa, mi viene alla mente un paragone storico, che le esprimo in forma interrogativa: chi avrebbe mai pensato che dodici sprovveduti pescatori avrebbero capovolto un sistema economico, politico e tecnologico così sofisticato come quello romano di 2000 anni fa?
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“La tecnologia è l’applicazione della scienza”. Niente di più ovvio. Tutti i discorsi che sentiamo e leggiamo circa la tecnologia, da destra a sinistra, si basano su questo indiscusso presupposto.
Ebbene, qualcuno inizia a dire no. E’ John Staudenmaier, quarantanovenne, gesuita, docente all’università di Detroit; non lo dice per il gusto del paradosso e neppure è una voce isolata. Esprime il lavoro di un gruppo di storici americani che da anni stanno ritessendo la trama di quella grande espressione dell’umana creatività che chiamano “tecnologia”. Staudenmaier preferisce definirli cantastorie, per sottolineare che anche la tecnologia ha una storia, la cui ricostruzione e il cui racconto autentico, spogliato del consueto abito di rappresentanza, hanno molto da insegnare. Staudenmaier è stato una delle scoperte del meeting. A mesi, inoltre, uscirà un suo libro per la Jaca Book, dal titolo “I cantasatorie della tecnologia”.
- Il Sabato: Come spiega il suo paradosso?
- John Staudenmaier: Dicendo che la tecnologia è scienza applicata compiamo un abuso di linguaggio. Un’affermazione simile è inevitabilmente carica di un insieme di ipotesi e premesse gratuite. Si idealizza la scienza come fosse un’entità monolitica, statica, ignorando le differenze al suo interno e le diverse tradizioni che storicamente si sono sviluppate. Quasi che la scienza fosse l’unica forma piena di conoscenza e che, d’altro canto, la tecnologia sia esclusa da ogni sfera conoscitiva. Io ritengo invece che la tecnologia abbia un notevole contenuto conoscitivo. Non è semplice “applicazione”: è una forma di conoscenza, non riducibile alla scienza.
Una forma tutta particolare, unica nel suo genere, che fa ricorso, beninteso, anche ai concetti scientifici ma riorganizzandoli e facendone un uso suo proprio. La tecnologia è finalizzata a risolvere i problemi a partire dalla pura evidenza dei dati concreti, compresi quelli non ancora inquadrati in teorie o schemi concettuali. Nel costruire il suo sapere anche il tecnologo arriva ad elaborare teorie ma con modalità ben diverse dalle cosidette scienze pure.
- Il Sabato: Prova ad evidenziare questa diversità?
- Staudenmaier: Le farò un’esempio. Pensi al confronto tra un metallurgico che studia le proprietà dell’acciaio e ad un ingegnere civile che esegue l’analisi degli sforzi di una trave: entrambi devono arrivare ad una teoria circa il comportamento dei materiali ed entrambi hanno di fronte un problema complesso. Ma la complessità del secondo è ben diversa dal primo: il suo scopo è garantire che la trave faccia stare in piedi l’edificio e i problemi e le condizioni che deve tenere in considerazione sono irriducibili al puro aspetto scientifico. Chi parla di scienza applicata ignora tale irriducibilità e tende a cancelllare la complessità dell’esperienza che costituisce il proprium della tecnologia.
Poi esiste un’altra peculiarità: noi la chiamiano skill, cioè abilità acquisita, perizia, “mestiere”. E’ qualcosa che non si trova sui libri.
E’ evidente che tra un ingegnere laureato con la lode ma privo di skill e un altro meno brillante come teorico ma abile nel prendere decisioni e nel risolvere problemi, qualunque azienda privilegia il secondo. Mi preme evidenziare comunque che questa abilità non è una dote di serie B: anche il “mestiere” è una forma di conoscenza.
- Il Sabato: L’equazione tecnologia uguale scienza applicata è però molto diffusa e radicata. Come lo spiega?
- Staudenmaier: La colpa è il mito del progresso. Noi abbiamo iniziato ad insospettirci rileggendo le pubblicazioni che presentano le principali conquiste tecnologiche.
I risultati sono sempre presentrati come se il loro successo dovesse essere già deciso e assicurato in partenza: l’abbiamo chiamata “storia cortigiana”. Mi sembra che la defnizione sia chiara. Purtroppo, per ora, è la concezione più diffusa e riecheggia continuamente nel linguaggio utilizzato dai mass media, credo anche in Italia.
- Il Sabato: Perchè è così importasnte contrastare queste posizioni?
- Staudenamier: Parlare di “progresso autonomo” significa negare la sua dipendenza da qualsiasi altro fattore. E’ come se non si riconoscesse alcuna possibiltà di incidenza da parte della cultura o di determinate culture. La tecnologia in pratica diventa un corpus dotato di sue proprie leggi di crescita, incontrollato e incontrollabile, destinato a vincere contro qualunque esperienza culturale. Invece mi sembra abbastanza documentabile (...) tecnica, rivela sempre un determinato modo di vivere e di concepire la vita: le sue caratteristiche sono quelle che qualcuno, in un modo o nell’altro, ha voluto e non quelle che “inevitabilmente” doveva avere.
- Il Sabato: Se però osserviamo i prodotti sul mercato, non sembra di rilevare grandi differenze tra i prodotti provenienti da diversi contesti culturali…
- Staudenmaier: Il motivo è semplice: oggi siamo ancora in presenza di un unico modo prevalente di fare tecnologia, quello occidentale, dove per Occidente si devono intendere quei Paesi che hanno nel mito del progresso autonomo la loro ideologia portante. Si giustifica allora la diffusione di un nuovo prodotto non perchè se ne constati la rispondenza a dei bisogni ma perchè è il risultato di un inevitabile progresso. Una simile presunzione elimina ogni critica e ogni dibattito sulla distribuzione e l’impiego delle risorse di una nazione o di una collettività. E, in più, diventa causa di violenza e oppressione per quei popoli e quelle realtà culturali che non si riconoscono nella mentalità “occidentale”. E’ una cosa che ho constatato personalmente, in modo drammatico, durante 10 anni di insegnamento in South Dakota, in una riserva Sioux: la frattura tra i valori veicolati dalla tecnologia occidentale e i valori della tradizione indiana era continuamente visibile e facilmente interpretabile come causa di tanta sofferenza e tanta rabbia.
- Il Sabato: L’esempio di una minoranza etnica resta un pò limitato. Cosa dire invece del rapporto tecnologia-bisogni umani nel nostro contesto?
- Staudenmaier: Nella stragrande maggioranza dei casi bisogna parlare almeno di ambivalenza: nel senso che l’uomo, la sua dignità , la persona, si ritrova al tempo stesso vincitore e perdente. Prendiamo un esempio facile: l’automobile. L’uomo è vincente per tutte le opportunità che un simile mezzo offre ma registra una serie di sconfitte anche pensando semplicemente ai condizionamenti fisici che la vita motorizzata impone. Purtoppo il mito del progresso impedisce che a tale ambivalenza si dedichi la giusta attenzione.
- Il Sabato: La sua critica a chi parla di tecnologia, agli storici, ai mass media, è molto chiara. Ma il singolo ingegenre, il progettista, il tecnico, ha qualche responsabilità diretta in proposito?
- Staudenmaier: Indubbiamente, e in modo rilevante. Intervenendo in molte discussioni con tecnici e ricercatori, ho constatato che agisce un meccansimo simile a quello prima descritto. Ogni volta che si apre un vivace dibattito sulla destinazione delle risorse e qualcuno si alza a criticare una tecnologia di successo per i suoi risvolti umani negativi, quasi sempre succede che gli operatori di quella tecnologia invocano il progresso. L’espressione tipo è: “Bisognava farlo comunque…”. E così il dbattito viene troncato subito. Con la conseguenza di rendere più difficile la comunicazione e il dialogo stesso tra persone. Per questo non esito a dire che il mito del progresso tende a rendere disumani i rapporti nell’ambito tecnologico.
- Il Sabato: Pensando ad un possibile superamento della situazione, balzano evidenti due fatti: da un lato la tecnologia occidentale è molto potente. Dall’altro, le cosidette tecnologie alternative, che avevano alimentato grandi speranze, o non si sono imposte o sono addirittura state inglobate dal sistema. Come uscirne?
- Staudenmaier: E’ una questione molto difficile. Intravedo due possibilità. La prima è che la società occidentale, così com’è, non sopravviva a lungo: la sua sopravvivenza indefinita e trionfante non è affatto assicurata. La seconda deriva dalla constatazione dell’aggravarsi degli squilibri connessi con questo tipo di cultura: ciò potrebbe favorire il sorgere di fenomeni di correzione, di nuovi modi di operare che tendano ad un riequilibrio globale. Ci sono, in verità, parecchi segni positivi in tale direzione.
- Il Sabato: Ma quale può essere il soggetto capace di immettere elementi di novità in un sistema così forte? Non è sufficiente la sola presa di coscienza degli squilibri…
- Staudenmaier: Gli uomini sono creativi, capaci di stupore e di inziativa. Ma non basta: il problema è che siano convinti di esserlo, che ritrovino questa autocoscienza. Davanti alla difficoltà di questa impresa, mi viene alla mente un paragone storico, che le esprimo in forma interrogativa: chi avrebbe mai pensato che dodici sprovveduti pescatori avrebbero capovolto un sistema economico, politico e tecnologico così sofisticato come quello romano di 2000 anni fa?
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sabato 1 febbraio 2014
Staudenmaier #3
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Libro: I cantastorie della tecnologia
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