Poco dopo il meeting di Rimini dell'estate del 1987, Mario Gargantini intervista John Staudenmaier per il settimanale Il Sabato.
---
“La tecnologia è l’applicazione della scienza”. Niente di più ovvio. Tutti i discorsi che sentiamo e leggiamo circa la tecnologia, da destra a sinistra, si basano su questo indiscusso presupposto.
Ebbene, qualcuno inizia a dire no. E’ John Staudenmaier, quarantanovenne, gesuita, docente all’università di Detroit; non lo dice per il gusto del paradosso e neppure è una voce isolata. Esprime il lavoro di un gruppo di storici americani che da anni stanno ritessendo la trama di quella grande espressione dell’umana creatività che chiamano “tecnologia”. Staudenmaier preferisce definirli cantastorie, per sottolineare che anche la tecnologia ha una storia, la cui ricostruzione e il cui racconto autentico, spogliato del consueto abito di rappresentanza, hanno molto da insegnare. Staudenmaier è stato una delle scoperte del meeting. A mesi, inoltre, uscirà un suo libro per la Jaca Book, dal titolo “I cantasatorie della tecnologia”.
- Il Sabato: Come spiega il suo paradosso?
- John Staudenmaier: Dicendo che la tecnologia è scienza applicata compiamo un abuso di linguaggio. Un’affermazione simile è inevitabilmente carica di un insieme di ipotesi e premesse gratuite. Si idealizza la scienza come fosse un’entità monolitica, statica, ignorando le differenze al suo interno e le diverse tradizioni che storicamente si sono sviluppate. Quasi che la scienza fosse l’unica forma piena di conoscenza e che, d’altro canto, la tecnologia sia esclusa da ogni sfera conoscitiva. Io ritengo invece che la tecnologia abbia un notevole contenuto conoscitivo. Non è semplice “applicazione”: è una forma di conoscenza, non riducibile alla scienza.
Una forma tutta particolare, unica nel suo genere, che fa ricorso, beninteso, anche ai concetti scientifici ma riorganizzandoli e facendone un uso suo proprio. La tecnologia è finalizzata a risolvere i problemi a partire dalla pura evidenza dei dati concreti, compresi quelli non ancora inquadrati in teorie o schemi concettuali. Nel costruire il suo sapere anche il tecnologo arriva ad elaborare teorie ma con modalità ben diverse dalle cosidette scienze pure.
- Il Sabato: Prova ad evidenziare questa diversità?
- Staudenmaier: Le farò un’esempio. Pensi al confronto tra un metallurgico che studia le proprietà dell’acciaio e ad un ingegnere civile che esegue l’analisi degli sforzi di una trave: entrambi devono arrivare ad una teoria circa il comportamento dei materiali ed entrambi hanno di fronte un problema complesso. Ma la complessità del secondo è ben diversa dal primo: il suo scopo è garantire che la trave faccia stare in piedi l’edificio e i problemi e le condizioni che deve tenere in considerazione sono irriducibili al puro aspetto scientifico. Chi parla di scienza applicata ignora tale irriducibilità e tende a cancelllare la complessità dell’esperienza che costituisce il proprium della tecnologia.
Poi esiste un’altra peculiarità: noi la chiamiano skill, cioè abilità acquisita, perizia, “mestiere”. E’ qualcosa che non si trova sui libri.
E’ evidente che tra un ingegnere laureato con la lode ma privo di skill e un altro meno brillante come teorico ma abile nel prendere decisioni e nel risolvere problemi, qualunque azienda privilegia il secondo. Mi preme evidenziare comunque che questa abilità non è una dote di serie B: anche il “mestiere” è una forma di conoscenza.
- Il Sabato: L’equazione tecnologia uguale scienza applicata è però molto diffusa e radicata. Come lo spiega?
- Staudenmaier: La colpa è il mito del progresso. Noi abbiamo iniziato ad insospettirci rileggendo le pubblicazioni che presentano le principali conquiste tecnologiche.
I risultati sono sempre presentrati come se il loro successo dovesse essere già deciso e assicurato in partenza: l’abbiamo chiamata “storia cortigiana”. Mi sembra che la defnizione sia chiara. Purtroppo, per ora, è la concezione più diffusa e riecheggia continuamente nel linguaggio utilizzato dai mass media, credo anche in Italia.
- Il Sabato: Perchè è così importasnte contrastare queste posizioni?
- Staudenamier: Parlare di “progresso autonomo” significa negare la sua dipendenza da qualsiasi altro fattore. E’ come se non si riconoscesse alcuna possibiltà di incidenza da parte della cultura o di determinate culture. La tecnologia in pratica diventa un corpus dotato di sue proprie leggi di crescita, incontrollato e incontrollabile, destinato a vincere contro qualunque esperienza culturale. Invece mi sembra abbastanza documentabile (...) tecnica, rivela sempre un determinato modo di vivere e di concepire la vita: le sue caratteristiche sono quelle che qualcuno, in un modo o nell’altro, ha voluto e non quelle che “inevitabilmente” doveva avere.
- Il Sabato: Se però osserviamo i prodotti sul mercato, non sembra di rilevare grandi differenze tra i prodotti provenienti da diversi contesti culturali…
- Staudenmaier: Il motivo è semplice: oggi siamo ancora in presenza di un unico modo prevalente di fare tecnologia, quello occidentale, dove per Occidente si devono intendere quei Paesi che hanno nel mito del progresso autonomo la loro ideologia portante. Si giustifica allora la diffusione di un nuovo prodotto non perchè se ne constati la rispondenza a dei bisogni ma perchè è il risultato di un inevitabile progresso. Una simile presunzione elimina ogni critica e ogni dibattito sulla distribuzione e l’impiego delle risorse di una nazione o di una collettività. E, in più, diventa causa di violenza e oppressione per quei popoli e quelle realtà culturali che non si riconoscono nella mentalità “occidentale”. E’ una cosa che ho constatato personalmente, in modo drammatico, durante 10 anni di insegnamento in South Dakota, in una riserva Sioux: la frattura tra i valori veicolati dalla tecnologia occidentale e i valori della tradizione indiana era continuamente visibile e facilmente interpretabile come causa di tanta sofferenza e tanta rabbia.
- Il Sabato: L’esempio di una minoranza etnica resta un pò limitato. Cosa dire invece del rapporto tecnologia-bisogni umani nel nostro contesto?
- Staudenmaier: Nella stragrande maggioranza dei casi bisogna parlare almeno di ambivalenza: nel senso che l’uomo, la sua dignità , la persona, si ritrova al tempo stesso vincitore e perdente. Prendiamo un esempio facile: l’automobile. L’uomo è vincente per tutte le opportunità che un simile mezzo offre ma registra una serie di sconfitte anche pensando semplicemente ai condizionamenti fisici che la vita motorizzata impone. Purtoppo il mito del progresso impedisce che a tale ambivalenza si dedichi la giusta attenzione.
- Il Sabato: La sua critica a chi parla di tecnologia, agli storici, ai mass media, è molto chiara. Ma il singolo ingegenre, il progettista, il tecnico, ha qualche responsabilità diretta in proposito?
- Staudenmaier: Indubbiamente, e in modo rilevante. Intervenendo in molte discussioni con tecnici e ricercatori, ho constatato che agisce un meccansimo simile a quello prima descritto. Ogni volta che si apre un vivace dibattito sulla destinazione delle risorse e qualcuno si alza a criticare una tecnologia di successo per i suoi risvolti umani negativi, quasi sempre succede che gli operatori di quella tecnologia invocano il progresso. L’espressione tipo è: “Bisognava farlo comunque…”. E così il dbattito viene troncato subito. Con la conseguenza di rendere più difficile la comunicazione e il dialogo stesso tra persone. Per questo non esito a dire che il mito del progresso tende a rendere disumani i rapporti nell’ambito tecnologico.
- Il Sabato: Pensando ad un possibile superamento della situazione, balzano evidenti due fatti: da un lato la tecnologia occidentale è molto potente. Dall’altro, le cosidette tecnologie alternative, che avevano alimentato grandi speranze, o non si sono imposte o sono addirittura state inglobate dal sistema. Come uscirne?
- Staudenmaier: E’ una questione molto difficile. Intravedo due possibilità. La prima è che la società occidentale, così com’è, non sopravviva a lungo: la sua sopravvivenza indefinita e trionfante non è affatto assicurata. La seconda deriva dalla constatazione dell’aggravarsi degli squilibri connessi con questo tipo di cultura: ciò potrebbe favorire il sorgere di fenomeni di correzione, di nuovi modi di operare che tendano ad un riequilibrio globale. Ci sono, in verità, parecchi segni positivi in tale direzione.
- Il Sabato: Ma quale può essere il soggetto capace di immettere elementi di novità in un sistema così forte? Non è sufficiente la sola presa di coscienza degli squilibri…
- Staudenmaier: Gli uomini sono creativi, capaci di stupore e di inziativa. Ma non basta: il problema è che siano convinti di esserlo, che ritrovino questa autocoscienza. Davanti alla difficoltà di questa impresa, mi viene alla mente un paragone storico, che le esprimo in forma interrogativa: chi avrebbe mai pensato che dodici sprovveduti pescatori avrebbero capovolto un sistema economico, politico e tecnologico così sofisticato come quello romano di 2000 anni fa?
domenica 2 febbraio 2014
irriducibile tecnologia
Etichette:
cantastorie della tecnologia
,
cultura
,
esperienza
,
Gargantini
,
indiani
,
ingegneri
,
mito del progresso
,
scienze pure
,
Sioux
,
skill
,
South Dakota
,
Staudenmaier
,
storia della tecnologia
Iscriviti a:
Commenti sul post
(
Atom
)
Nessun commento :
Posta un commento