mercoledì 12 febbraio 2014
Scuola 2.0: cautela digitale
Scuola 2.0: cautela digitale: Non sono tante in questi tempi di enstusiasmi digitali le voci che richiamano ad una cautela rispetto all'introduzione delle più diffuse...
martedì 11 febbraio 2014
lunedì 10 febbraio 2014
Scuola 2.0: discipline produttive
Scuola 2.0: discipline produttive: Le discipline produttive secondo Joseph J. Schwab, ne "La struttura della conoscenza e il curricolo", 1964, pp. 13-14 "(.....
domenica 9 febbraio 2014
scienze sperimentali: il piano ISS
Che cosa significa l'espressione "scienze sperimentali"? Che cosa distingue, ammesso che la distinzione sussista, tra scienze della natura e scienze sperimentali? E poi: "scienze della natura" e "scienze naturali" sono la stessa cosa o le due espressioni hanno un significato diverso? Per rispondere a queste domande - impresa tutt'altro che banale ma anche appassionante - cominciamo con proporre la lettura di una delle relazioni del primo seminario nazionale del Piano ISS - Insegnare Scienze Sperimentali.
La didattica laboratoriale del Piano ISS. Insegnare a comprendere integrando ragionamento, esplorazione della fenomenologia e misure (Emilio Balzano, Rosarina Carpignano, Tiziano Pera, Filomena Rocca) in PIANO ISS - Primo Seminario Nazionale (Milano - Napoli) Novembre Dicembre 2006
A) Il laboratorio e la didattica
La didattica laboratoriale e la realizzazione di laboratori innovativi costituiscono elementi caratterizzanti il Piano ISS così come descritto nel documento di base e nei relativi allegati. Alla base c’è la constatazione che:
a) la quasi totale assenza di una reale pratica di laboratorio (che coinvolga in modo attivo gli allievi) nelle nostre scuole sia strettamente correlata al grave stato dell’insegnamento-apprendimento delle scienze nel nostro paese;
b) la mancanza di una pratica di laboratorio non è tanto da ricondurre alla scarsità di risorse - il laboratorio può essere realizzato con costi contenuti, costose aule multimediali sono ora in quasi tutte le scuole - quanto a carenze complessive del sistema scolastico (organizzazione degli spazi e dei tempi della scuola, non adeguata preparazione degli insegnanti, ecc.).
Sulla valenza formativa del laboratorio nella didattica delle scienze c’è in generale accordo anche se esistono punti di vista anche molto diversi sulle funzioni e le modalità di attuazione. Per semplicità si può dire che coesistono due posizioni a volte complementari altre volte antitetiche per quanto concerne l’attuazione:
1) Le scienze sono per loro natura sperimentali: solo con attività di misura è possibile impadronirsi del significato delle leggi. Il laboratorio diventa il luogo privilegiato della verifica delle leggi e dell’addestramento al metodo sperimentale (talvolta ridotto a schemi rigidi e a procedure standard);
2) La costruzione di una conoscenza scientifica si basa sulla condivisione di esperienze e di significati. L’esplorazione della fenomenologia, se ben progettata, integra momenti di analisi qualitativa, analisi quantitativa e la costruzione/condivisione di modelli. Il laboratorio è il terreno privilegiato per costruire abilità sperimentali e capacità di ragionamento che permettono di sviluppare un pensiero critico, di distinguere tra evidenze e interpretazioni e condividere la plausibilità e il significato di concetti, modelli e teorie (approccio fenomenologico).
Le due impostazioni (qui polarizzate per semplicità su due posizioni contrapposte) sottolineano, con enfasi diversi aspetti che sono comunque importanti nello studio delle scienze (il saper esplorare con metodo la fenomenologia, il misurare, il prevedere, il progettare...). Tuttavia dovendo rispondere all’esigenza di promuovere e attivare processi che migliorano nel loro insieme l’educazione scientifica (anche correggendo situazioni che rendono poco produttivi i laboratori esistenti), il Piano ISS ha scelto di privilegiare l’approccio fenomenologico e un laboratorio (non soltanto come un luogo fisico) che permetta di sperimentare i modelli e condivisione di teorie (cfr. documento di base e allegato). Tale scelta è tra l’altro coerente con la necessità di promuovere, nelle reti verticali ancorate ai presìdi territoriali, un’educazione scientifica dalla scuola d’infanzia fino alla secondaria di II grado costruendo e condividendo elementi del curricolo di scienze. Ciò nasce dalla convinzione che non solo per sviluppare un atteggiamento scientifico (che richiede capacità operative, di ragionamento, ecc.) occorre iniziare presto proprio perché queste capacità si sviluppano con gradualità e con tempi anche lunghi ma soprattutto che le attività esplorative a carattere scientifico, se ben progettate e non finalizzate al dogmatismo ed al nominalismo, aiutano più in generale i bambini e i ragazzi nella loro crescita culturale. Ad esempio sono indispensabili per il maturare delle capacità linguistiche e logico-matematiche, per educare all’uso delle tecnologie, per sviluppare la sensibilità nel riconoscere il senso estetico dei fenomeni naturali, ecc. Per questo è necessario riconoscere le diverse valenze della didattica laboratoriale sia nell’apprendimento che nell’insegnamento.
La scelta di privilegiare nel Piano ISS la realizzazione di laboratori innovativi è coerente con i risultati di ricerche svolte in diversi paesi europei che evidenziano i limiti del laboratorio tradizionale. Emerge che, in generale, ancorché tecnologicamente avanzato (multimediale, con sensori in linea, ecc.), il laboratorio tradizionale (di addestramento e di misura) presenta i seguenti limiti:
1) Gli studenti trovano difficoltà nel legare le operazioni che riguardano gli apparati di misura e la configurazione dell’esperimento con i modelli concettuali che danno significato a tali operazioni, quindi lavorano spesso con procedure che si presentano come un insieme di azioni anche complesse ma tra loro sconnesse.
2) La rilevazione e l’analisi dei dati sono spesso legate ad una visione prestatistica e le elaborazioni richieste sono di frequente guidate da automatismi (nell’applicare formule o nell’utilizzare software...) senza che si comprendano i concetti di base sul senso dell’elaborazione. Non si tratta tanto dei concetti più avanzati: anche il significato della media aritmetica non è sempre chiaro.
D’altro canto da diverse ricerche e sperimentazioni emerge che tali difficoltà tendono a diminuire in quelle situazioni in cui l’attività di laboratorio:
a) Integra nell’analisi quantitativa diversi momenti basati su un approccio fenomenologico nella ricerca delle regole, l’analisi qualitativa, la descrizione a parole, la modellizzazione e la costruzione della teoria;
b) Tende a privilegiare il protagonismo degli studenti nello svolgimento di compiti che richiedono, in attività parzialmente assistite, la progettazione dell’esperimento, il controllo della sua configurazione.
Quindi il laboratorio del Piano ISS è non solo e non tanto un “luogo attrezzato”, bensì metodo e cultura della ricerca e della progettualità. Il laboratorio rappresenta uno “spazio-situazione” ove gli studenti vengono coinvolti in operazioni mentali-manuali. Tuttavia non si tratta solo di proporre, progettare, realizzare ed interpretare esperienze e/o esperimenti e/o esercitazioni in ambito disciplinare o di area-progetto, quanto di evidenziare il legame esistente tra interpretazione di fenomeni e lo sviluppo di capacità di ragionamento. Laboratorio dunque non solo come luogo e circostanza centrate sulla relazione tra mente e corpo, pur importantissima, ma come importante e insostituibile struttura connettiva della ricerca di senso e della “cultura dell’apprendimento”. L’attività spazia dall’individuazione di un problema al progetto preliminare per la sua soluzione, all’indagine di fattibilità, all’ esecuzione di esperienze, alla loro validazione, alla valutazione di coerenza dei risultati, alla loro pubblicizzazione. L’obiettivo è quello di far acquisire atteggiamenti e valori come parti di un metodo, di una mentalità, che possano divenire patrimonio culturale dell’allievo. E questo laboratorio può fornire allo studente un insostituibile contributo per la formazione di una mentalità fondata sulla partecipazione e la cooperazione; nello stesso tempo impone la partecipazione attiva degli studenti al processo di costruzione del loro stesso sapere (quello che G. Bateson chiama “deuteroapprendimento” e che altri indicano come “apprendimento secondario”, cioè l’imparare ad imparare).
Il laboratorio proposto nel piano ISS si basa pertanto sula attivazione del processo di apprendimento che porti alla trasformazione dell’atteggiamento e del comportamento dell’allievo di fronte al duplice obiettivo: imparare a ricercare ed imparare ad imparare. La prospettiva educativa del laboratorio non è dunque semplicemente funzionale alle discipline quanto piuttosto ad una epistemologia trasversale alle discipline, pienamente cosciente di misurarsi con l’educazione al “rapporto” degli allievi tra loro, degli allievi con il docente e di questi con i fenomeni della natura.
informazioni complete sul Piano ISS in una pagina curata dall'associazione AIF
La didattica laboratoriale del Piano ISS. Insegnare a comprendere integrando ragionamento, esplorazione della fenomenologia e misure (Emilio Balzano, Rosarina Carpignano, Tiziano Pera, Filomena Rocca) in PIANO ISS - Primo Seminario Nazionale (Milano - Napoli) Novembre Dicembre 2006
A) Il laboratorio e la didattica
La didattica laboratoriale e la realizzazione di laboratori innovativi costituiscono elementi caratterizzanti il Piano ISS così come descritto nel documento di base e nei relativi allegati. Alla base c’è la constatazione che:
a) la quasi totale assenza di una reale pratica di laboratorio (che coinvolga in modo attivo gli allievi) nelle nostre scuole sia strettamente correlata al grave stato dell’insegnamento-apprendimento delle scienze nel nostro paese;
b) la mancanza di una pratica di laboratorio non è tanto da ricondurre alla scarsità di risorse - il laboratorio può essere realizzato con costi contenuti, costose aule multimediali sono ora in quasi tutte le scuole - quanto a carenze complessive del sistema scolastico (organizzazione degli spazi e dei tempi della scuola, non adeguata preparazione degli insegnanti, ecc.).
Sulla valenza formativa del laboratorio nella didattica delle scienze c’è in generale accordo anche se esistono punti di vista anche molto diversi sulle funzioni e le modalità di attuazione. Per semplicità si può dire che coesistono due posizioni a volte complementari altre volte antitetiche per quanto concerne l’attuazione:
1) Le scienze sono per loro natura sperimentali: solo con attività di misura è possibile impadronirsi del significato delle leggi. Il laboratorio diventa il luogo privilegiato della verifica delle leggi e dell’addestramento al metodo sperimentale (talvolta ridotto a schemi rigidi e a procedure standard);
2) La costruzione di una conoscenza scientifica si basa sulla condivisione di esperienze e di significati. L’esplorazione della fenomenologia, se ben progettata, integra momenti di analisi qualitativa, analisi quantitativa e la costruzione/condivisione di modelli. Il laboratorio è il terreno privilegiato per costruire abilità sperimentali e capacità di ragionamento che permettono di sviluppare un pensiero critico, di distinguere tra evidenze e interpretazioni e condividere la plausibilità e il significato di concetti, modelli e teorie (approccio fenomenologico).
Le due impostazioni (qui polarizzate per semplicità su due posizioni contrapposte) sottolineano, con enfasi diversi aspetti che sono comunque importanti nello studio delle scienze (il saper esplorare con metodo la fenomenologia, il misurare, il prevedere, il progettare...). Tuttavia dovendo rispondere all’esigenza di promuovere e attivare processi che migliorano nel loro insieme l’educazione scientifica (anche correggendo situazioni che rendono poco produttivi i laboratori esistenti), il Piano ISS ha scelto di privilegiare l’approccio fenomenologico e un laboratorio (non soltanto come un luogo fisico) che permetta di sperimentare i modelli e condivisione di teorie (cfr. documento di base e allegato). Tale scelta è tra l’altro coerente con la necessità di promuovere, nelle reti verticali ancorate ai presìdi territoriali, un’educazione scientifica dalla scuola d’infanzia fino alla secondaria di II grado costruendo e condividendo elementi del curricolo di scienze. Ciò nasce dalla convinzione che non solo per sviluppare un atteggiamento scientifico (che richiede capacità operative, di ragionamento, ecc.) occorre iniziare presto proprio perché queste capacità si sviluppano con gradualità e con tempi anche lunghi ma soprattutto che le attività esplorative a carattere scientifico, se ben progettate e non finalizzate al dogmatismo ed al nominalismo, aiutano più in generale i bambini e i ragazzi nella loro crescita culturale. Ad esempio sono indispensabili per il maturare delle capacità linguistiche e logico-matematiche, per educare all’uso delle tecnologie, per sviluppare la sensibilità nel riconoscere il senso estetico dei fenomeni naturali, ecc. Per questo è necessario riconoscere le diverse valenze della didattica laboratoriale sia nell’apprendimento che nell’insegnamento.
La scelta di privilegiare nel Piano ISS la realizzazione di laboratori innovativi è coerente con i risultati di ricerche svolte in diversi paesi europei che evidenziano i limiti del laboratorio tradizionale. Emerge che, in generale, ancorché tecnologicamente avanzato (multimediale, con sensori in linea, ecc.), il laboratorio tradizionale (di addestramento e di misura) presenta i seguenti limiti:
1) Gli studenti trovano difficoltà nel legare le operazioni che riguardano gli apparati di misura e la configurazione dell’esperimento con i modelli concettuali che danno significato a tali operazioni, quindi lavorano spesso con procedure che si presentano come un insieme di azioni anche complesse ma tra loro sconnesse.
2) La rilevazione e l’analisi dei dati sono spesso legate ad una visione prestatistica e le elaborazioni richieste sono di frequente guidate da automatismi (nell’applicare formule o nell’utilizzare software...) senza che si comprendano i concetti di base sul senso dell’elaborazione. Non si tratta tanto dei concetti più avanzati: anche il significato della media aritmetica non è sempre chiaro.
D’altro canto da diverse ricerche e sperimentazioni emerge che tali difficoltà tendono a diminuire in quelle situazioni in cui l’attività di laboratorio:
a) Integra nell’analisi quantitativa diversi momenti basati su un approccio fenomenologico nella ricerca delle regole, l’analisi qualitativa, la descrizione a parole, la modellizzazione e la costruzione della teoria;
b) Tende a privilegiare il protagonismo degli studenti nello svolgimento di compiti che richiedono, in attività parzialmente assistite, la progettazione dell’esperimento, il controllo della sua configurazione.
Quindi il laboratorio del Piano ISS è non solo e non tanto un “luogo attrezzato”, bensì metodo e cultura della ricerca e della progettualità. Il laboratorio rappresenta uno “spazio-situazione” ove gli studenti vengono coinvolti in operazioni mentali-manuali. Tuttavia non si tratta solo di proporre, progettare, realizzare ed interpretare esperienze e/o esperimenti e/o esercitazioni in ambito disciplinare o di area-progetto, quanto di evidenziare il legame esistente tra interpretazione di fenomeni e lo sviluppo di capacità di ragionamento. Laboratorio dunque non solo come luogo e circostanza centrate sulla relazione tra mente e corpo, pur importantissima, ma come importante e insostituibile struttura connettiva della ricerca di senso e della “cultura dell’apprendimento”. L’attività spazia dall’individuazione di un problema al progetto preliminare per la sua soluzione, all’indagine di fattibilità, all’ esecuzione di esperienze, alla loro validazione, alla valutazione di coerenza dei risultati, alla loro pubblicizzazione. L’obiettivo è quello di far acquisire atteggiamenti e valori come parti di un metodo, di una mentalità, che possano divenire patrimonio culturale dell’allievo. E questo laboratorio può fornire allo studente un insostituibile contributo per la formazione di una mentalità fondata sulla partecipazione e la cooperazione; nello stesso tempo impone la partecipazione attiva degli studenti al processo di costruzione del loro stesso sapere (quello che G. Bateson chiama “deuteroapprendimento” e che altri indicano come “apprendimento secondario”, cioè l’imparare ad imparare).
Il laboratorio proposto nel piano ISS si basa pertanto sula attivazione del processo di apprendimento che porti alla trasformazione dell’atteggiamento e del comportamento dell’allievo di fronte al duplice obiettivo: imparare a ricercare ed imparare ad imparare. La prospettiva educativa del laboratorio non è dunque semplicemente funzionale alle discipline quanto piuttosto ad una epistemologia trasversale alle discipline, pienamente cosciente di misurarsi con l’educazione al “rapporto” degli allievi tra loro, degli allievi con il docente e di questi con i fenomeni della natura.
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Tiziano Pera
giovedì 6 febbraio 2014
una didattica umanistica delle scienze naturali
proponiamo un brano da un interessante articolo di Giovanni Cercignani (http://www.pi.ibf.cnr.it/cercignani-giovanni) sulla didattica delle Scienze Naturali
(...) Siamo giunti al punto di poter convogliare gli argomenti fin qui presentati in un discorso prospettico che investa l’insieme dei problemi posti dalla moderna didattica delle Scienze Naturali. L’idea che siamo andati elaborando fin qui è riassumibile nelle seguenti proposizioni:
1) insegnare Scienze Naturali significa in sostanza accostare lo studente a modelli di conoscenza che non siano fini a se stessi, ma che abbiano un potenziale euristico più generale, siano cioè paradigmi di ulteriore espansione della conoscenza e dell'apprendimento;
2) in questa prospettiva, il contenuto specifico di ogni disciplina non va appreso mnemonicamente (salvo che nelle sue definizioni elementari) bensì usato come esperienza conoscitiva;
3) obiettivo principale della didattica delle Scienze Naturali nelle Scuole Secondarie Superiori è la formazione di una cultura generale intesa nel senso definito sopra (e questo vale, come si è già detto, per tutte le materie), e non l’addestramento specialistico di professionisti;
4) tale obiettivo si può realizzare proponendo lo studio critico e riflessivo di specifici modelli di cultura scientifica scelti dal repertorio a disposizione dell'insegnante.
Ci si domanderà se questo genere di proposta sia ragionevole, se sia cioè proponibile all'insegnante di Scienze Naturali la rinuncia al classico programma di coprire nel suo insegnamento tutto il campo di determinate discipline, per scegliere invece un itinerario conoscitivo che parta da una sola di queste, presa come paradigma di un linguaggio scientifico comune, da usare per la ricognizione di diversi altri settori che andranno letti in chiave interdisciplinare.
Sembra ragionevole proporre il superamento di una impostazione nozionistica o specialistica attraverso l’uso di uno strumento di tal genere? Posta in questi termini, l’operazione di accostamento alla formazione di una cultura scientifica generale non rischia di rivelarsi un utopia?
La risposta a queste obiezioni può venire solo da una corretta valutazione della necessità didattica, che possiamo solo definire come l’introduzione di solide basi concettuali, metodologiche e di linguaggio per progredire verso un apprendimento formativo.
Diviene allora spontanea l’individuazione di strategie di insegnamento che privilegino la scelta di argomenti adeguati particolarmente alla realizzazione della proposta ora avanzata. Si possono agevolmente risolvere le obiezioni riguardanti il "pignolo descrittivismo" o il "riduzionismo miope", come pure quelle sulla settorialità delle discipline o il mancato rapporto con la "realtà di tutti i giorni". Docente e discente non sono più costretti a subire il programma, ma liberi di costruirlo secondo un propria necessità di maturazione culturale, in una parola (una grossa parola, spesso dimenticata) impegnati a fare scuola di umanesimo. Secondo questa impostazione, l’insegnamento delle Scienze Naturali si propone di avanzare su una prospettiva unitaria che adotti una visione globale della cultura scientifica attraverso la consapevole analisi dei suoi aspetti specifici.
l'articolo completo su http://educa.univpm.it/prodiba/scinasec.html
(...) Siamo giunti al punto di poter convogliare gli argomenti fin qui presentati in un discorso prospettico che investa l’insieme dei problemi posti dalla moderna didattica delle Scienze Naturali. L’idea che siamo andati elaborando fin qui è riassumibile nelle seguenti proposizioni:
1) insegnare Scienze Naturali significa in sostanza accostare lo studente a modelli di conoscenza che non siano fini a se stessi, ma che abbiano un potenziale euristico più generale, siano cioè paradigmi di ulteriore espansione della conoscenza e dell'apprendimento;
2) in questa prospettiva, il contenuto specifico di ogni disciplina non va appreso mnemonicamente (salvo che nelle sue definizioni elementari) bensì usato come esperienza conoscitiva;
3) obiettivo principale della didattica delle Scienze Naturali nelle Scuole Secondarie Superiori è la formazione di una cultura generale intesa nel senso definito sopra (e questo vale, come si è già detto, per tutte le materie), e non l’addestramento specialistico di professionisti;
4) tale obiettivo si può realizzare proponendo lo studio critico e riflessivo di specifici modelli di cultura scientifica scelti dal repertorio a disposizione dell'insegnante.
Ci si domanderà se questo genere di proposta sia ragionevole, se sia cioè proponibile all'insegnante di Scienze Naturali la rinuncia al classico programma di coprire nel suo insegnamento tutto il campo di determinate discipline, per scegliere invece un itinerario conoscitivo che parta da una sola di queste, presa come paradigma di un linguaggio scientifico comune, da usare per la ricognizione di diversi altri settori che andranno letti in chiave interdisciplinare.
Sembra ragionevole proporre il superamento di una impostazione nozionistica o specialistica attraverso l’uso di uno strumento di tal genere? Posta in questi termini, l’operazione di accostamento alla formazione di una cultura scientifica generale non rischia di rivelarsi un utopia?
La risposta a queste obiezioni può venire solo da una corretta valutazione della necessità didattica, che possiamo solo definire come l’introduzione di solide basi concettuali, metodologiche e di linguaggio per progredire verso un apprendimento formativo.
Diviene allora spontanea l’individuazione di strategie di insegnamento che privilegino la scelta di argomenti adeguati particolarmente alla realizzazione della proposta ora avanzata. Si possono agevolmente risolvere le obiezioni riguardanti il "pignolo descrittivismo" o il "riduzionismo miope", come pure quelle sulla settorialità delle discipline o il mancato rapporto con la "realtà di tutti i giorni". Docente e discente non sono più costretti a subire il programma, ma liberi di costruirlo secondo un propria necessità di maturazione culturale, in una parola (una grossa parola, spesso dimenticata) impegnati a fare scuola di umanesimo. Secondo questa impostazione, l’insegnamento delle Scienze Naturali si propone di avanzare su una prospettiva unitaria che adotti una visione globale della cultura scientifica attraverso la consapevole analisi dei suoi aspetti specifici.
l'articolo completo su http://educa.univpm.it/prodiba/scinasec.html
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martedì 4 febbraio 2014
Scuola 2.0: Una pedagogia per la Scienza e la Tecnologia
Scuola 2.0: Una pedagogia per la Scienza e la Tecnologia: (...) La via, per la pedagogia, è quella della formazione. Occorre cioè che essa assuma un impegno formativo almeno in due direzioni. La pri...
domenica 2 febbraio 2014
irriducibile tecnologia
Poco dopo il meeting di Rimini dell'estate del 1987, Mario Gargantini intervista John Staudenmaier per il settimanale Il Sabato.
---
“La tecnologia è l’applicazione della scienza”. Niente di più ovvio. Tutti i discorsi che sentiamo e leggiamo circa la tecnologia, da destra a sinistra, si basano su questo indiscusso presupposto.
Ebbene, qualcuno inizia a dire no. E’ John Staudenmaier, quarantanovenne, gesuita, docente all’università di Detroit; non lo dice per il gusto del paradosso e neppure è una voce isolata. Esprime il lavoro di un gruppo di storici americani che da anni stanno ritessendo la trama di quella grande espressione dell’umana creatività che chiamano “tecnologia”. Staudenmaier preferisce definirli cantastorie, per sottolineare che anche la tecnologia ha una storia, la cui ricostruzione e il cui racconto autentico, spogliato del consueto abito di rappresentanza, hanno molto da insegnare. Staudenmaier è stato una delle scoperte del meeting. A mesi, inoltre, uscirà un suo libro per la Jaca Book, dal titolo “I cantasatorie della tecnologia”.
- Il Sabato: Come spiega il suo paradosso?
- John Staudenmaier: Dicendo che la tecnologia è scienza applicata compiamo un abuso di linguaggio. Un’affermazione simile è inevitabilmente carica di un insieme di ipotesi e premesse gratuite. Si idealizza la scienza come fosse un’entità monolitica, statica, ignorando le differenze al suo interno e le diverse tradizioni che storicamente si sono sviluppate. Quasi che la scienza fosse l’unica forma piena di conoscenza e che, d’altro canto, la tecnologia sia esclusa da ogni sfera conoscitiva. Io ritengo invece che la tecnologia abbia un notevole contenuto conoscitivo. Non è semplice “applicazione”: è una forma di conoscenza, non riducibile alla scienza.
Una forma tutta particolare, unica nel suo genere, che fa ricorso, beninteso, anche ai concetti scientifici ma riorganizzandoli e facendone un uso suo proprio. La tecnologia è finalizzata a risolvere i problemi a partire dalla pura evidenza dei dati concreti, compresi quelli non ancora inquadrati in teorie o schemi concettuali. Nel costruire il suo sapere anche il tecnologo arriva ad elaborare teorie ma con modalità ben diverse dalle cosidette scienze pure.
- Il Sabato: Prova ad evidenziare questa diversità?
- Staudenmaier: Le farò un’esempio. Pensi al confronto tra un metallurgico che studia le proprietà dell’acciaio e ad un ingegnere civile che esegue l’analisi degli sforzi di una trave: entrambi devono arrivare ad una teoria circa il comportamento dei materiali ed entrambi hanno di fronte un problema complesso. Ma la complessità del secondo è ben diversa dal primo: il suo scopo è garantire che la trave faccia stare in piedi l’edificio e i problemi e le condizioni che deve tenere in considerazione sono irriducibili al puro aspetto scientifico. Chi parla di scienza applicata ignora tale irriducibilità e tende a cancelllare la complessità dell’esperienza che costituisce il proprium della tecnologia.
Poi esiste un’altra peculiarità: noi la chiamiano skill, cioè abilità acquisita, perizia, “mestiere”. E’ qualcosa che non si trova sui libri.
E’ evidente che tra un ingegnere laureato con la lode ma privo di skill e un altro meno brillante come teorico ma abile nel prendere decisioni e nel risolvere problemi, qualunque azienda privilegia il secondo. Mi preme evidenziare comunque che questa abilità non è una dote di serie B: anche il “mestiere” è una forma di conoscenza.
- Il Sabato: L’equazione tecnologia uguale scienza applicata è però molto diffusa e radicata. Come lo spiega?
- Staudenmaier: La colpa è il mito del progresso. Noi abbiamo iniziato ad insospettirci rileggendo le pubblicazioni che presentano le principali conquiste tecnologiche.
I risultati sono sempre presentrati come se il loro successo dovesse essere già deciso e assicurato in partenza: l’abbiamo chiamata “storia cortigiana”. Mi sembra che la defnizione sia chiara. Purtroppo, per ora, è la concezione più diffusa e riecheggia continuamente nel linguaggio utilizzato dai mass media, credo anche in Italia.
- Il Sabato: Perchè è così importasnte contrastare queste posizioni?
- Staudenamier: Parlare di “progresso autonomo” significa negare la sua dipendenza da qualsiasi altro fattore. E’ come se non si riconoscesse alcuna possibiltà di incidenza da parte della cultura o di determinate culture. La tecnologia in pratica diventa un corpus dotato di sue proprie leggi di crescita, incontrollato e incontrollabile, destinato a vincere contro qualunque esperienza culturale. Invece mi sembra abbastanza documentabile (...) tecnica, rivela sempre un determinato modo di vivere e di concepire la vita: le sue caratteristiche sono quelle che qualcuno, in un modo o nell’altro, ha voluto e non quelle che “inevitabilmente” doveva avere.
- Il Sabato: Se però osserviamo i prodotti sul mercato, non sembra di rilevare grandi differenze tra i prodotti provenienti da diversi contesti culturali…
- Staudenmaier: Il motivo è semplice: oggi siamo ancora in presenza di un unico modo prevalente di fare tecnologia, quello occidentale, dove per Occidente si devono intendere quei Paesi che hanno nel mito del progresso autonomo la loro ideologia portante. Si giustifica allora la diffusione di un nuovo prodotto non perchè se ne constati la rispondenza a dei bisogni ma perchè è il risultato di un inevitabile progresso. Una simile presunzione elimina ogni critica e ogni dibattito sulla distribuzione e l’impiego delle risorse di una nazione o di una collettività. E, in più, diventa causa di violenza e oppressione per quei popoli e quelle realtà culturali che non si riconoscono nella mentalità “occidentale”. E’ una cosa che ho constatato personalmente, in modo drammatico, durante 10 anni di insegnamento in South Dakota, in una riserva Sioux: la frattura tra i valori veicolati dalla tecnologia occidentale e i valori della tradizione indiana era continuamente visibile e facilmente interpretabile come causa di tanta sofferenza e tanta rabbia.
- Il Sabato: L’esempio di una minoranza etnica resta un pò limitato. Cosa dire invece del rapporto tecnologia-bisogni umani nel nostro contesto?
- Staudenmaier: Nella stragrande maggioranza dei casi bisogna parlare almeno di ambivalenza: nel senso che l’uomo, la sua dignità , la persona, si ritrova al tempo stesso vincitore e perdente. Prendiamo un esempio facile: l’automobile. L’uomo è vincente per tutte le opportunità che un simile mezzo offre ma registra una serie di sconfitte anche pensando semplicemente ai condizionamenti fisici che la vita motorizzata impone. Purtoppo il mito del progresso impedisce che a tale ambivalenza si dedichi la giusta attenzione.
- Il Sabato: La sua critica a chi parla di tecnologia, agli storici, ai mass media, è molto chiara. Ma il singolo ingegenre, il progettista, il tecnico, ha qualche responsabilità diretta in proposito?
- Staudenmaier: Indubbiamente, e in modo rilevante. Intervenendo in molte discussioni con tecnici e ricercatori, ho constatato che agisce un meccansimo simile a quello prima descritto. Ogni volta che si apre un vivace dibattito sulla destinazione delle risorse e qualcuno si alza a criticare una tecnologia di successo per i suoi risvolti umani negativi, quasi sempre succede che gli operatori di quella tecnologia invocano il progresso. L’espressione tipo è: “Bisognava farlo comunque…”. E così il dbattito viene troncato subito. Con la conseguenza di rendere più difficile la comunicazione e il dialogo stesso tra persone. Per questo non esito a dire che il mito del progresso tende a rendere disumani i rapporti nell’ambito tecnologico.
- Il Sabato: Pensando ad un possibile superamento della situazione, balzano evidenti due fatti: da un lato la tecnologia occidentale è molto potente. Dall’altro, le cosidette tecnologie alternative, che avevano alimentato grandi speranze, o non si sono imposte o sono addirittura state inglobate dal sistema. Come uscirne?
- Staudenmaier: E’ una questione molto difficile. Intravedo due possibilità. La prima è che la società occidentale, così com’è, non sopravviva a lungo: la sua sopravvivenza indefinita e trionfante non è affatto assicurata. La seconda deriva dalla constatazione dell’aggravarsi degli squilibri connessi con questo tipo di cultura: ciò potrebbe favorire il sorgere di fenomeni di correzione, di nuovi modi di operare che tendano ad un riequilibrio globale. Ci sono, in verità, parecchi segni positivi in tale direzione.
- Il Sabato: Ma quale può essere il soggetto capace di immettere elementi di novità in un sistema così forte? Non è sufficiente la sola presa di coscienza degli squilibri…
- Staudenmaier: Gli uomini sono creativi, capaci di stupore e di inziativa. Ma non basta: il problema è che siano convinti di esserlo, che ritrovino questa autocoscienza. Davanti alla difficoltà di questa impresa, mi viene alla mente un paragone storico, che le esprimo in forma interrogativa: chi avrebbe mai pensato che dodici sprovveduti pescatori avrebbero capovolto un sistema economico, politico e tecnologico così sofisticato come quello romano di 2000 anni fa?
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“La tecnologia è l’applicazione della scienza”. Niente di più ovvio. Tutti i discorsi che sentiamo e leggiamo circa la tecnologia, da destra a sinistra, si basano su questo indiscusso presupposto.
Ebbene, qualcuno inizia a dire no. E’ John Staudenmaier, quarantanovenne, gesuita, docente all’università di Detroit; non lo dice per il gusto del paradosso e neppure è una voce isolata. Esprime il lavoro di un gruppo di storici americani che da anni stanno ritessendo la trama di quella grande espressione dell’umana creatività che chiamano “tecnologia”. Staudenmaier preferisce definirli cantastorie, per sottolineare che anche la tecnologia ha una storia, la cui ricostruzione e il cui racconto autentico, spogliato del consueto abito di rappresentanza, hanno molto da insegnare. Staudenmaier è stato una delle scoperte del meeting. A mesi, inoltre, uscirà un suo libro per la Jaca Book, dal titolo “I cantasatorie della tecnologia”.
- Il Sabato: Come spiega il suo paradosso?
- John Staudenmaier: Dicendo che la tecnologia è scienza applicata compiamo un abuso di linguaggio. Un’affermazione simile è inevitabilmente carica di un insieme di ipotesi e premesse gratuite. Si idealizza la scienza come fosse un’entità monolitica, statica, ignorando le differenze al suo interno e le diverse tradizioni che storicamente si sono sviluppate. Quasi che la scienza fosse l’unica forma piena di conoscenza e che, d’altro canto, la tecnologia sia esclusa da ogni sfera conoscitiva. Io ritengo invece che la tecnologia abbia un notevole contenuto conoscitivo. Non è semplice “applicazione”: è una forma di conoscenza, non riducibile alla scienza.
Una forma tutta particolare, unica nel suo genere, che fa ricorso, beninteso, anche ai concetti scientifici ma riorganizzandoli e facendone un uso suo proprio. La tecnologia è finalizzata a risolvere i problemi a partire dalla pura evidenza dei dati concreti, compresi quelli non ancora inquadrati in teorie o schemi concettuali. Nel costruire il suo sapere anche il tecnologo arriva ad elaborare teorie ma con modalità ben diverse dalle cosidette scienze pure.
- Il Sabato: Prova ad evidenziare questa diversità?
- Staudenmaier: Le farò un’esempio. Pensi al confronto tra un metallurgico che studia le proprietà dell’acciaio e ad un ingegnere civile che esegue l’analisi degli sforzi di una trave: entrambi devono arrivare ad una teoria circa il comportamento dei materiali ed entrambi hanno di fronte un problema complesso. Ma la complessità del secondo è ben diversa dal primo: il suo scopo è garantire che la trave faccia stare in piedi l’edificio e i problemi e le condizioni che deve tenere in considerazione sono irriducibili al puro aspetto scientifico. Chi parla di scienza applicata ignora tale irriducibilità e tende a cancelllare la complessità dell’esperienza che costituisce il proprium della tecnologia.
Poi esiste un’altra peculiarità: noi la chiamiano skill, cioè abilità acquisita, perizia, “mestiere”. E’ qualcosa che non si trova sui libri.
E’ evidente che tra un ingegnere laureato con la lode ma privo di skill e un altro meno brillante come teorico ma abile nel prendere decisioni e nel risolvere problemi, qualunque azienda privilegia il secondo. Mi preme evidenziare comunque che questa abilità non è una dote di serie B: anche il “mestiere” è una forma di conoscenza.
- Il Sabato: L’equazione tecnologia uguale scienza applicata è però molto diffusa e radicata. Come lo spiega?
- Staudenmaier: La colpa è il mito del progresso. Noi abbiamo iniziato ad insospettirci rileggendo le pubblicazioni che presentano le principali conquiste tecnologiche.
I risultati sono sempre presentrati come se il loro successo dovesse essere già deciso e assicurato in partenza: l’abbiamo chiamata “storia cortigiana”. Mi sembra che la defnizione sia chiara. Purtroppo, per ora, è la concezione più diffusa e riecheggia continuamente nel linguaggio utilizzato dai mass media, credo anche in Italia.
- Il Sabato: Perchè è così importasnte contrastare queste posizioni?
- Staudenamier: Parlare di “progresso autonomo” significa negare la sua dipendenza da qualsiasi altro fattore. E’ come se non si riconoscesse alcuna possibiltà di incidenza da parte della cultura o di determinate culture. La tecnologia in pratica diventa un corpus dotato di sue proprie leggi di crescita, incontrollato e incontrollabile, destinato a vincere contro qualunque esperienza culturale. Invece mi sembra abbastanza documentabile (...) tecnica, rivela sempre un determinato modo di vivere e di concepire la vita: le sue caratteristiche sono quelle che qualcuno, in un modo o nell’altro, ha voluto e non quelle che “inevitabilmente” doveva avere.
- Il Sabato: Se però osserviamo i prodotti sul mercato, non sembra di rilevare grandi differenze tra i prodotti provenienti da diversi contesti culturali…
- Staudenmaier: Il motivo è semplice: oggi siamo ancora in presenza di un unico modo prevalente di fare tecnologia, quello occidentale, dove per Occidente si devono intendere quei Paesi che hanno nel mito del progresso autonomo la loro ideologia portante. Si giustifica allora la diffusione di un nuovo prodotto non perchè se ne constati la rispondenza a dei bisogni ma perchè è il risultato di un inevitabile progresso. Una simile presunzione elimina ogni critica e ogni dibattito sulla distribuzione e l’impiego delle risorse di una nazione o di una collettività. E, in più, diventa causa di violenza e oppressione per quei popoli e quelle realtà culturali che non si riconoscono nella mentalità “occidentale”. E’ una cosa che ho constatato personalmente, in modo drammatico, durante 10 anni di insegnamento in South Dakota, in una riserva Sioux: la frattura tra i valori veicolati dalla tecnologia occidentale e i valori della tradizione indiana era continuamente visibile e facilmente interpretabile come causa di tanta sofferenza e tanta rabbia.
- Il Sabato: L’esempio di una minoranza etnica resta un pò limitato. Cosa dire invece del rapporto tecnologia-bisogni umani nel nostro contesto?
- Staudenmaier: Nella stragrande maggioranza dei casi bisogna parlare almeno di ambivalenza: nel senso che l’uomo, la sua dignità , la persona, si ritrova al tempo stesso vincitore e perdente. Prendiamo un esempio facile: l’automobile. L’uomo è vincente per tutte le opportunità che un simile mezzo offre ma registra una serie di sconfitte anche pensando semplicemente ai condizionamenti fisici che la vita motorizzata impone. Purtoppo il mito del progresso impedisce che a tale ambivalenza si dedichi la giusta attenzione.
- Il Sabato: La sua critica a chi parla di tecnologia, agli storici, ai mass media, è molto chiara. Ma il singolo ingegenre, il progettista, il tecnico, ha qualche responsabilità diretta in proposito?
- Staudenmaier: Indubbiamente, e in modo rilevante. Intervenendo in molte discussioni con tecnici e ricercatori, ho constatato che agisce un meccansimo simile a quello prima descritto. Ogni volta che si apre un vivace dibattito sulla destinazione delle risorse e qualcuno si alza a criticare una tecnologia di successo per i suoi risvolti umani negativi, quasi sempre succede che gli operatori di quella tecnologia invocano il progresso. L’espressione tipo è: “Bisognava farlo comunque…”. E così il dbattito viene troncato subito. Con la conseguenza di rendere più difficile la comunicazione e il dialogo stesso tra persone. Per questo non esito a dire che il mito del progresso tende a rendere disumani i rapporti nell’ambito tecnologico.
- Il Sabato: Pensando ad un possibile superamento della situazione, balzano evidenti due fatti: da un lato la tecnologia occidentale è molto potente. Dall’altro, le cosidette tecnologie alternative, che avevano alimentato grandi speranze, o non si sono imposte o sono addirittura state inglobate dal sistema. Come uscirne?
- Staudenmaier: E’ una questione molto difficile. Intravedo due possibilità. La prima è che la società occidentale, così com’è, non sopravviva a lungo: la sua sopravvivenza indefinita e trionfante non è affatto assicurata. La seconda deriva dalla constatazione dell’aggravarsi degli squilibri connessi con questo tipo di cultura: ciò potrebbe favorire il sorgere di fenomeni di correzione, di nuovi modi di operare che tendano ad un riequilibrio globale. Ci sono, in verità, parecchi segni positivi in tale direzione.
- Il Sabato: Ma quale può essere il soggetto capace di immettere elementi di novità in un sistema così forte? Non è sufficiente la sola presa di coscienza degli squilibri…
- Staudenmaier: Gli uomini sono creativi, capaci di stupore e di inziativa. Ma non basta: il problema è che siano convinti di esserlo, che ritrovino questa autocoscienza. Davanti alla difficoltà di questa impresa, mi viene alla mente un paragone storico, che le esprimo in forma interrogativa: chi avrebbe mai pensato che dodici sprovveduti pescatori avrebbero capovolto un sistema economico, politico e tecnologico così sofisticato come quello romano di 2000 anni fa?
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sabato 1 febbraio 2014
Staudenmaier #3
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Libro: I cantastorie della tecnologia
venerdì 31 gennaio 2014
Staudenmaier #2
Era il 25 agosto 1987 quando John Staudenmaier viene intervistato da Giuseppe Folloni al meeting di Rimini. Riporto la parte iniziale della sua relazione. Per il testo completo vedere qui.
Per cominciare, consideriamo l'elettricità all'inizio della sua origine, in quanto evento tecnico ed economico. Dal 1878 al 1882, Thomas Edison ha inventato il primo sistema di produzione elettrica nel mondo.
Da una prospettiva tecnica, la genialità di Edison si è esplicata in due modi. Prima di tutto il suo progetto è stato fatto nel primo laboratorio di ricerca e di sviluppo multidisciplinare. Qui è avvenuta l'invenzione di Edison, è proprio nel quadro di questo laboratorio che Edison con la sua comprensione della necessità, in una lampada, di filamenti, ha contraddetto praticamente cinquant'anni di ricerca nel campo elettrico, con un atto di creatività, di genialità tecnica storicamente incredibile.
Tuttavia cercarono di tornare indietro per un attimo. Da dove proveniva Edison? E chi ha fornito i finanziamenti per le sue ricerche? La culla da cui è nata la luce elettrica è stato l'enorme sistema telegrafico e ferroviario degli Stati Uniti, che ha avuto un enorme boom dal 1850. In effetti, le ferrovie richiedevano dei telegrafi, affinché vi fosse un flusso quasi istantaneo di informazioni, e dato che le ferrovie potevano generare delle quantità enormi di capitale, hanno stimolato le ricerche nel campo della tecnologia telegrafica. Edison ha guadagnato la sua fama inventando il telegrafo e i componenti del telegrafo. Ha utilizzato la sua fama per poter ottenere dei finanziamenti, e questi, con la sua perizia, sono stati la base della sua grande invenzione della luce elettrica.
Si potrebbe dire forse che l'elettricità non proviene semplicemente da un genio, ma piuttosto da un sistema tecnico-economico, e adesso sappiamo molto bene come accade...
Tuttavia l'invenzione di Edison è stata una cosa piccolissima, l'intero sistema copriva soltanto lo spazio di questa sfera. Ora questo non è sufficiente per capire quella elettricità che invece forma e modella la nostra vita. Vi è un ulteriore fattore tecnico-economico a cui dobbiamo fare molta attenzione: dovunque nel mondo l'elettricità è prodotta e venduta da grandi centri o reti, dalle grandi stazioni di generazione di luce con delle lunghe linee di trasmissione, e con molti utenti. Come è potuto accadere questo?
In particolare dobbiamo riconoscere che l'elettricità non può essere accumulata in grande quantità e in modo economico. Di conseguenza, ogni qualvolta utilizziamo la luce elettrica, accendendo una lampada, una radio, un computer, oppure azionando un ascensore, nel momento stesso in cui premiamo un interruttore, da qualche parte vi deve essere un generatore che comincia a girare più veloce, per poterci fornire la quantità di elettricità necessaria. Se chiediamo troppo alla elettricità che proviene da un generatore, questo continuerà a girare sempre più velocemente, più velocemente... fino al momento in cui si brucia, e a quel punto abbiamo il black-out. Ora per evitare questo fatto, è necessario disporre di un numero sufficiente di generatori per poter far fronte a quella domanda istantanea di maggiore utilizzazione del sistema. Ed è quello che chiamiamo la domanda picco, o il carico di picco.
Tuttavia i generatori sono estremamente costosi, e dato che sono così costosi, come si può fare per pagarli? In genere si ricorre a prestiti pagando un tasso di interesse. Come si può ripagare il prestito? Si vende elettricità. Supponiamo che si venda solo abbastanza elettricità per soddisfare un solo grosso picco al giorno, e poi che se ne venda molto poca, per il resto del tempo. Quindi è necessario avere i generatori in numero sufficiente per i momenti di picco e bisogna pagarli, ma per il resto della giornata restano inutilizzati. Di conseguenza le aziende elettriche hanno imparato come vendere non semplicemente la materia elettricità, ma piuttosto dei tipi particolari di uso dell'elettricità, che appunto venivano impiegati in momenti specifici della giornata.
Vorrei presentare un esempio molto semplice: negli Stati Uniti, nel 1920, se si guarda lo schema dell'utilizzo energetico, si vede una grossa caduta a mezzogiorno, nelle ore serali, ed anche nei week-end. Cioè quando le macchine delle fabbriche vengono spente, quando si utilizzano meno i carrelli elettrici. Di conseguenza, da parte delle aziende si è pensato: come potremmo vendere l'elettricità dei mezzogiorno?
Cosa fanno le persone a mezzogiorno? Mangiano. Benissimo, ecco allora delle cucine elettriche, molto moderne, e uno slogan adeguato: "Mamma, ma tu lasci uscire tuo figlio il pomeriggio avendo mangiato un pranzo freddo, forse la cucina elettrica ... ". Così erano le frasi pubblicitarie. Quindi si può dire che hanno venduto cucine elettriche per poter riempire questo "buco".
Ed è quanto è successo.
Per cominciare, consideriamo l'elettricità all'inizio della sua origine, in quanto evento tecnico ed economico. Dal 1878 al 1882, Thomas Edison ha inventato il primo sistema di produzione elettrica nel mondo.
Da una prospettiva tecnica, la genialità di Edison si è esplicata in due modi. Prima di tutto il suo progetto è stato fatto nel primo laboratorio di ricerca e di sviluppo multidisciplinare. Qui è avvenuta l'invenzione di Edison, è proprio nel quadro di questo laboratorio che Edison con la sua comprensione della necessità, in una lampada, di filamenti, ha contraddetto praticamente cinquant'anni di ricerca nel campo elettrico, con un atto di creatività, di genialità tecnica storicamente incredibile.
Tuttavia cercarono di tornare indietro per un attimo. Da dove proveniva Edison? E chi ha fornito i finanziamenti per le sue ricerche? La culla da cui è nata la luce elettrica è stato l'enorme sistema telegrafico e ferroviario degli Stati Uniti, che ha avuto un enorme boom dal 1850. In effetti, le ferrovie richiedevano dei telegrafi, affinché vi fosse un flusso quasi istantaneo di informazioni, e dato che le ferrovie potevano generare delle quantità enormi di capitale, hanno stimolato le ricerche nel campo della tecnologia telegrafica. Edison ha guadagnato la sua fama inventando il telegrafo e i componenti del telegrafo. Ha utilizzato la sua fama per poter ottenere dei finanziamenti, e questi, con la sua perizia, sono stati la base della sua grande invenzione della luce elettrica.
Si potrebbe dire forse che l'elettricità non proviene semplicemente da un genio, ma piuttosto da un sistema tecnico-economico, e adesso sappiamo molto bene come accade...
Tuttavia l'invenzione di Edison è stata una cosa piccolissima, l'intero sistema copriva soltanto lo spazio di questa sfera. Ora questo non è sufficiente per capire quella elettricità che invece forma e modella la nostra vita. Vi è un ulteriore fattore tecnico-economico a cui dobbiamo fare molta attenzione: dovunque nel mondo l'elettricità è prodotta e venduta da grandi centri o reti, dalle grandi stazioni di generazione di luce con delle lunghe linee di trasmissione, e con molti utenti. Come è potuto accadere questo?
In particolare dobbiamo riconoscere che l'elettricità non può essere accumulata in grande quantità e in modo economico. Di conseguenza, ogni qualvolta utilizziamo la luce elettrica, accendendo una lampada, una radio, un computer, oppure azionando un ascensore, nel momento stesso in cui premiamo un interruttore, da qualche parte vi deve essere un generatore che comincia a girare più veloce, per poterci fornire la quantità di elettricità necessaria. Se chiediamo troppo alla elettricità che proviene da un generatore, questo continuerà a girare sempre più velocemente, più velocemente... fino al momento in cui si brucia, e a quel punto abbiamo il black-out. Ora per evitare questo fatto, è necessario disporre di un numero sufficiente di generatori per poter far fronte a quella domanda istantanea di maggiore utilizzazione del sistema. Ed è quello che chiamiamo la domanda picco, o il carico di picco.
Tuttavia i generatori sono estremamente costosi, e dato che sono così costosi, come si può fare per pagarli? In genere si ricorre a prestiti pagando un tasso di interesse. Come si può ripagare il prestito? Si vende elettricità. Supponiamo che si venda solo abbastanza elettricità per soddisfare un solo grosso picco al giorno, e poi che se ne venda molto poca, per il resto del tempo. Quindi è necessario avere i generatori in numero sufficiente per i momenti di picco e bisogna pagarli, ma per il resto della giornata restano inutilizzati. Di conseguenza le aziende elettriche hanno imparato come vendere non semplicemente la materia elettricità, ma piuttosto dei tipi particolari di uso dell'elettricità, che appunto venivano impiegati in momenti specifici della giornata.
Vorrei presentare un esempio molto semplice: negli Stati Uniti, nel 1920, se si guarda lo schema dell'utilizzo energetico, si vede una grossa caduta a mezzogiorno, nelle ore serali, ed anche nei week-end. Cioè quando le macchine delle fabbriche vengono spente, quando si utilizzano meno i carrelli elettrici. Di conseguenza, da parte delle aziende si è pensato: come potremmo vendere l'elettricità dei mezzogiorno?
Cosa fanno le persone a mezzogiorno? Mangiano. Benissimo, ecco allora delle cucine elettriche, molto moderne, e uno slogan adeguato: "Mamma, ma tu lasci uscire tuo figlio il pomeriggio avendo mangiato un pranzo freddo, forse la cucina elettrica ... ". Così erano le frasi pubblicitarie. Quindi si può dire che hanno venduto cucine elettriche per poter riempire questo "buco".
Ed è quanto è successo.
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giovedì 30 gennaio 2014
Staudenmaier #1
(...) Adesso passiamo invece ai corpi sociali che girano intorno ai problemi dell'automobile. Ci sono veramente tre corpi sociali, tre gruppi di interesse che girano intorno al mondo dell'automobile.
1) Il primo gruppo è di coloro che hanno avuto una voce nella fase di progettazione, nella prima fase: se uno vuol capire come un progetto è venuto fuori, deve capire gli uomini che l'hanno creato, quali erano le loro abitudini, quali erano i loro sistemi di valore, qual era il loro accesso alle risorse finanziarie, alle risorse politiche, che importanza avevano. Senza questo non si capisce come è emersa l'automobile come progetto.
2) Il secondo gruppo è il gruppo di manutenzione, il corpo sociale che, quando una tecnologia ha successo, ne beneficia e finisce per dipendere da essa. Chi sarebbe la gente che fa parte dei gruppo di manutenzione oggi in Italia? Tutti i lavoratori che fanno automobili, che fanno la plastica per automobili, che fanno le gomme per le automobili ecc. E poi chi lavora nel settore assicurativo per l'auto, nei motels, nei punti di ristoro, chi progetta e costruisce le autostrade. Chi potrebbe vivere senza l'utilizzo dell'auto, per andare a lavorare, per fare la spesa ecc.? Tanta più gente fa parte del gruppo di manutenzione, tanto più potente è la tecnologia che l'ha creato.
3) Il terzo gruppo è il gruppo d'urto. Si tratta di coloro che subiscono danni a causa del modo con cui la tecnologia è stata progettata. Ad esempio nella città di Detroit, dove vivo, che ha circa le dimensioni di Milano, non ci sono quasi più mezzi di trasporto pubblico. Ma cosa succede alla gente che vive in Detroit e non ha i soldi per pagarsi l'auto? (...)
L'intero modello è un modello suggestivo per interpretare le tecnologie di successo all'interno d’ogni società. E’ un modello che è stato pensato per far capire che ci sono state delle scelte umane all'intero della tecnologia, che hanno avuto a volte dei buoni effetti e a volte dei cattivi effetti; quindi un modello fatto per reperire il punto d’inserimento dei valori umani nel processo tecnologico. Ma è anche progettato in modo tale da richiamare l'attenzione su come una tecnologia funziona, in modo tale che non siamo troppo bruschi, non siamo troppo precipitosi e faciloni nel pensare che sia facile cambiare una tecnologia.
La mia intenzione nel proporvi questa cosa, è quella che vi serva per capire le modalità possibili, realistiche, per poter influenzare le tecnologie che in questo momento sono di successo nella nostra società.
1) Il primo gruppo è di coloro che hanno avuto una voce nella fase di progettazione, nella prima fase: se uno vuol capire come un progetto è venuto fuori, deve capire gli uomini che l'hanno creato, quali erano le loro abitudini, quali erano i loro sistemi di valore, qual era il loro accesso alle risorse finanziarie, alle risorse politiche, che importanza avevano. Senza questo non si capisce come è emersa l'automobile come progetto.
2) Il secondo gruppo è il gruppo di manutenzione, il corpo sociale che, quando una tecnologia ha successo, ne beneficia e finisce per dipendere da essa. Chi sarebbe la gente che fa parte dei gruppo di manutenzione oggi in Italia? Tutti i lavoratori che fanno automobili, che fanno la plastica per automobili, che fanno le gomme per le automobili ecc. E poi chi lavora nel settore assicurativo per l'auto, nei motels, nei punti di ristoro, chi progetta e costruisce le autostrade. Chi potrebbe vivere senza l'utilizzo dell'auto, per andare a lavorare, per fare la spesa ecc.? Tanta più gente fa parte del gruppo di manutenzione, tanto più potente è la tecnologia che l'ha creato.
3) Il terzo gruppo è il gruppo d'urto. Si tratta di coloro che subiscono danni a causa del modo con cui la tecnologia è stata progettata. Ad esempio nella città di Detroit, dove vivo, che ha circa le dimensioni di Milano, non ci sono quasi più mezzi di trasporto pubblico. Ma cosa succede alla gente che vive in Detroit e non ha i soldi per pagarsi l'auto? (...)
L'intero modello è un modello suggestivo per interpretare le tecnologie di successo all'interno d’ogni società. E’ un modello che è stato pensato per far capire che ci sono state delle scelte umane all'intero della tecnologia, che hanno avuto a volte dei buoni effetti e a volte dei cattivi effetti; quindi un modello fatto per reperire il punto d’inserimento dei valori umani nel processo tecnologico. Ma è anche progettato in modo tale da richiamare l'attenzione su come una tecnologia funziona, in modo tale che non siamo troppo bruschi, non siamo troppo precipitosi e faciloni nel pensare che sia facile cambiare una tecnologia.
La mia intenzione nel proporvi questa cosa, è quella che vi serva per capire le modalità possibili, realistiche, per poter influenzare le tecnologie che in questo momento sono di successo nella nostra società.
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mercoledì 29 gennaio 2014
Risposta alla domanda focale n.4
La storia della Tecnologia, delle invenzioni, del cambiamento della qualità della vita delle donne, dei malati, dell’igiene quotidiana, che peso hanno nella formazione dell’adulto/lavoratore consapevole? E come insegnarla senza scadere nella pedanteria e nella noia?
con questo interrogativo si concludeva la domanda focale 4 di Ferdinando Riotta sul ruolo e sul peso della storia della tecnologia nell'insegnamento della tecnologia.
Sono convinto che:
a) occuparsi di tecnologia, come occuparsi di scienza, voglia dire anche conoscere e interessarsi della dimensione storica di questo sapere. Sia perchè il lavoro dello scienziato o del tecnologo vengono arricchiti in modo fondamentale da uno sguardo che abbraccia oltre al presente anche il passato, sia perchè la ricerca di nuove verità scientifiche o di efficaci soluzioni tecnologiche sarà più facile se esse si potranno confrontare (e competere) non solamente con la "popolazione" attuale ma anche con quella del passato.
b) la storia della tecnologia utile, anzi indispensabile allo studio della tecnologia è fortemente impregnata di conoscenze tecnologiche; è una storia capace di coniugare e di equilibrare la spinta (centrifuga) alla contestualizzazione sociale e la spinta opposta (centripeta) alla focalizzazione tecnica o tecnicistica.
Rimane invece aperta l'ultima parte della domanda di Riotta su come si debba insegnare una tecnologia composta, e quasi 'impastata', della propria storia.
Torneremo quindi su questo punto in un prossimo post.
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venerdì 24 gennaio 2014
la storia per la scienza
Tra i problemi relativi alla formazione scientifica e alla didattica delle scienze, come anche alla formazione tecnologica, merita particolare attenzione quello del ruolo della storia: l’insegnamento della scienza o quello della tecnologia, possono prescindere da una prospettiva di tipo storico? Il problema potrebbe essere formulato anche nei seguenti termini: la formazione - intesa nella sua accezione più ampia - di uno scienziato o di un tecnologo può non comprendere anche significativi elementi di carattere storico e storiografico?
A giudicare dal modo in cui scienza e tecnologia sono generalmente insegnate nei diversi ordini scolastici si direbbe che la risposta a questa domanda sia di tipo negativo. D’altra parte sono diverse le voci di studiosi e ricercatori in vari ambiti che richiamano ad una riflessione più attenta e approfondita su questo argomento. Io sono convinto che sia nel giusto chi sostiene che vi siano fondate ragioni a favore di un significativo contributo della storia alla formazione scientifica e tecnologica; e che tali ragioni siano non solamente di tipo utilitaristico (la scienza e la tecnologia si apprendono meglio se calate all’interno di una prospettiva di tipo storico e critico) ma anche di tipo teorico (la scienza e la tecnologia sono - sempre di più - processi in continuo movimento, e l’attività scientifica non può prescindere da una componente storica).
1) Nella scienza nulla è mai deciso, scrive Dario Antiseri in un suo recente saggio riprendendo le osservazioni di Paul K. Feyerabend intorno alla fondamentale utilità della storia della scienza nel lavoro dello scienziato: “nessuna concezione (presente o passata, ndr) può mai essere lasciata fuori da un’esposizione generale”. Infatti il movimento dell’impresa scientifica non di rado ha conosciuto l’abbandono di talune teorie e la loro (sbrigativa e rivelatasi poi inopportuna) sostituzione con spiegazioni in quel momento più fortunate. Al contrario è una sana proliferazione di teorie in competizione, attinte anche dal passato, a rendere possibile la scoperta scientifica così come l’innovazione tecnologica. Più sono le teorie, vecchie e nuove, in competizione con una teoria dominante - osserva ancora Antiseri - maggiore diventa la possibilità di trovarne una migliore di quella dominante, o la possibilità che quest’ultima addirittura si rafforzi.
2) Un altra importante ragione a sostegno di un rafforzamento della dimensione storica nell’educazione scientifica e tecnologica fa riferimento alla didattica ed è rappresentata dalla sua indubbia valenza motivazionale. Le teorie scientifiche infatti sono risposte a domande e compito fondamentale della didattica della scienza è di inquadrare e contestualizzare adeguatamente tali problemi. E’ camminando per i sentieri della storia - osserva ancora Antiseri - che i ragazzi incontrano i problemi che hanno richiesto soluzioni. Una teoria scientifica o tecnologica assume, se guardata in questa prospettiva, un senso e un valore, e il suo studio risulta più motivato e quindi motivante.
A giudicare dal modo in cui scienza e tecnologia sono generalmente insegnate nei diversi ordini scolastici si direbbe che la risposta a questa domanda sia di tipo negativo. D’altra parte sono diverse le voci di studiosi e ricercatori in vari ambiti che richiamano ad una riflessione più attenta e approfondita su questo argomento. Io sono convinto che sia nel giusto chi sostiene che vi siano fondate ragioni a favore di un significativo contributo della storia alla formazione scientifica e tecnologica; e che tali ragioni siano non solamente di tipo utilitaristico (la scienza e la tecnologia si apprendono meglio se calate all’interno di una prospettiva di tipo storico e critico) ma anche di tipo teorico (la scienza e la tecnologia sono - sempre di più - processi in continuo movimento, e l’attività scientifica non può prescindere da una componente storica).
1) Nella scienza nulla è mai deciso, scrive Dario Antiseri in un suo recente saggio riprendendo le osservazioni di Paul K. Feyerabend intorno alla fondamentale utilità della storia della scienza nel lavoro dello scienziato: “nessuna concezione (presente o passata, ndr) può mai essere lasciata fuori da un’esposizione generale”. Infatti il movimento dell’impresa scientifica non di rado ha conosciuto l’abbandono di talune teorie e la loro (sbrigativa e rivelatasi poi inopportuna) sostituzione con spiegazioni in quel momento più fortunate. Al contrario è una sana proliferazione di teorie in competizione, attinte anche dal passato, a rendere possibile la scoperta scientifica così come l’innovazione tecnologica. Più sono le teorie, vecchie e nuove, in competizione con una teoria dominante - osserva ancora Antiseri - maggiore diventa la possibilità di trovarne una migliore di quella dominante, o la possibilità che quest’ultima addirittura si rafforzi.
2) Un altra importante ragione a sostegno di un rafforzamento della dimensione storica nell’educazione scientifica e tecnologica fa riferimento alla didattica ed è rappresentata dalla sua indubbia valenza motivazionale. Le teorie scientifiche infatti sono risposte a domande e compito fondamentale della didattica della scienza è di inquadrare e contestualizzare adeguatamente tali problemi. E’ camminando per i sentieri della storia - osserva ancora Antiseri - che i ragazzi incontrano i problemi che hanno richiesto soluzioni. Una teoria scientifica o tecnologica assume, se guardata in questa prospettiva, un senso e un valore, e il suo studio risulta più motivato e quindi motivante.
Inoltre, e per concludere, un approccio storico all’impresa scientifica e tecnologica potrebbe rappresentare un elemento di avvicinamento e di integrazione tra la formazione scientifica e quella tecnologica, scongiurando il rischio che la necessaria distinzione tra le due modalità di conoscenza degeneri in una sterile quanto improbabile separazione.
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lunedì 20 gennaio 2014
scienza e scienze applicate
Che sono sono la scienza e la tecnologia? E in che relazione stanno tra loro? Per cominciare la nostra riflessione intorno al rapporto tra scienza e tecnologia possiamo porci come primo problema quello di trovare risposta a queste domande fondamentali. Iniziamo con l’osservare che i termini scienza e tecnologia sono certamente termini molto usati e quindi anche molto usurati: essi vengono impiegati nei contesti più disparati e assumono di conseguenza una gamma altrettanto ampia di possibili significati. In alcuni casi i due termini vengono utilizzati in modo correlato indicando una relazione, un nesso, un rapporto: date le finalità di questo lavoro, dedicheremo particolare attenzione proprio alle situazioni di questo tipo.
Esaminiamo per cominciare il frequente impiego della coppia di espressioni ‘scienze’ e ‘scienze applicate’, largamente utilizzate anche in ambito scolastico (vedi “liceo delle scienze applicate”, ecc). Il modello di organizzazione del sapere sotteso a queste espressioni ha una struttura bipolare: da una parte la ricerca di leggi generali, universali; dall’altra la previsione - mediante un opportuno impiego di tali leggi - di specifici eventi e fenomeni oppure la progettazione e realizzazione di particolari artefatti, materiali o immateriali. A ben vedere questo modello presenta anche una seconda qualità, che tra poco sarà sottoposta a critica: la unidirezionalità. Infatti esso è tutt’uno con l’idea che sia unicamente la scienza, qualunque cosa si voglia intendere con tale termine, a fornire risorse conoscitive alla tecnologia, impegnata quest’ultima nelle (conseguenti) applicazioni pratiche (vedi schema 1).
schema 1 - modello lineare
scienza ===> tecnologia
Una osservazione prima di procedere. La distinzione prima discussa tra scienze e scienze applicate si basa sul modello di organizzazione del sapere elaborato da Aristotele, e particolarmente sulla sua distinzione generale tra scienze teoretiche, da una parte, e scienze pratiche e poietiche, dall’altra. Se le prime ricercano il sapere per sè medesimo, le seconde ricercano il sapere per raggiungere attraverso esso la perfezione morale (scienze pratiche) oppure la produzione o realizzazione di artefatti (scienze poietiche). Benchè in linea generale la sua elaborazione concettuale risulti abbastanza comprensibile e accettabile, è anche vero che l’applicazione della suddivisione del sapere inventata da Aristotele alla realtà odierna richiede una delicata opera di trasposizione tra le categorie concettuali del tempo e quelle di oggi. Se quindi la distinzione tra scienze e scienze applicate appare come una attualizzazione del modello di Aristotele, nello stesso tempo non ci pare particolarmente fedele alla sua - ancora valida, riteniamo - sistemazione concettuale dei diversi ambiti del sapere.
Se in un passato non troppo recente questo modello poteva avere una sua utilità sotto il profilo semantico, al giorno d’oggi risulta applicabile solo in casi e situazioni circoscritte, più difficilmente ad un livello generale. Infatti lo svolgersi dell’attività scientifica e tecnologica, un tempo effettivamente distinte, avviene oggi in modo tale da rendere possibile solamente una distinzione concettuale - per quanto utile - tra il momento scientifico e quello tecnologico. Infatti sono tali e tanti gli apporti che le due componenti forniscono e ricevono vicendevolmente da far pensare più ad un unico tipo di attività, benchè articolato, piuttosto che ad attività realmente separate. E’ significativo quanto afferma Alec Broers (http://en.wikipedia.org/wiki/Alec_Broers,_Baron_Broers):
“Non tenterò di dare una definizione precisa dei termini ‘scienza’, ‘tecnologia’, ‘ingegneria’ e ‘innovazione’; anzi, in alcuni casi li userò indifferentemente come sinonimi. Credo, in questo modo, di riflettere fedelmente la realtà. Scienziati, ingegneri e innnovatori sono tutti in un certo senso produttori di scienza, e tutti gli ingegneri e gli scienziati sono sempre innovatori. E’ difficile distinguere il punto in cui la scienza applicata diventa ingegneria o tecnologia. (...) Molti ingegneri sono convinti che sia l’ingegneria a rendere utile la scienza, ma d’altra parte anche gli scienziati sono sicuri di fare altrettanto. A me un dibattito del genere sembra un’inutile perdita di tempo: è evidente che entrambe la categorie svolgono un compito fondamentale”.
Questo secondo modello, che mantiene una distinzione concettuale tra l’attività scientifica e quella tecnologica ma in cui sono messi in evidenza i nessi di reciproco scambio e condizionamento, può essere ben rappresentato dallo schema seguente (vedi schema 2)
schema 2 - modello circolare
scienza ===> tecnologia
|| ||
tecnologia <=== scienza
(1 - continua)
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domenica 19 gennaio 2014
Aristotele
Treccani, l'enciclopedia italiana
Enciclopedia dei ragazzi
Aristotele La mente filosofica più universale dei Greci
Enciclopedia dei ragazzi
Aristotele La mente filosofica più universale dei Greci
Se il filosofo è colui che 'ama il sapere', Aristotele ‒ vissuto in Grecia nel 4° secolo a.C. ‒ ne ha rappresentato la massima incarnazione. La sua attività di ricerca è stata prodigiosa: si è occupato di metafisica, fisica, biologia, psicologia, etica, politica, poetica, retorica e logica, lasciando in ognuno di questi campi un'impronta indelebile
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lunedì 13 gennaio 2014
Storia della Tecnologia e approccio SCOT
La storia della tecnologia raramente si interessa delle tecnologie che non hanno avuto successo, che non hanno vinto la competizione e non si sono affermate nella società. Il racconto lineare, progressivo, dell'evoluzione tecnologica fornisce una visione superficiale dei meccanismi che portano le tecnologie ad affermarsi su quelle concorrenti; quasi sempre è stato questo approccio a dominare nelle formazione e nella educazione tecnologica di base, preoccupata più di mostrare il funzionamento della tecnologia operante invece che di fare luce sulle dinamiche di "selezione" tecnologica. Per comprendere la tecnologia dobbiamo abbracciare con lo sguardo anche la società e tutti gli attori che in essa giocano ruoli significativi: istituzioni, formazioni politiche, mezzi di comunicazione, portatori di interessi economici, ecc.
La teoria della "costruzione sociale della tecnologia" - o SCOT - rappresenta un approccio allo studio della storia della tecnologia fondato sui rapporti di ogni fatto tecnologico con il contesto sociale a cui fa riferimento. L'insegnamento della tecnologia nella scuola di base può essere significativamente arricchito da un approccio come quello SCOT; le modalità attraverso cui la didattica della tecnologia se ne possa utilmente avvalere rimangono in gran parte da investigare.
Tra i rappresentanti più significativi di questo importante filone di studi si possono segnalare: Wiebe Bijker, Trevor Pinch, Wiebe E. Bijker. Un testo molto accessibile e utile per un inquadramento generale dei principali problemi è senz'altro "La bicicletta e altre innovazioni" di Wiebe E. Bijker, McGraw Hill, 1998 (informazioni su tecalibri: http://tecalibri.altervista.org/B/BIJKER-WE_bicicletta.htm)
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